Il Whistleblowing, com’è noto, indica quella particolare attività del pubblico dipendente (come pure del lavoratore di un’impresa privata che sia in particolari rapporti con la pubblica amministrazione) che, nell’interesse della pubblica amministrazione, segnala o denuncia condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio lavoro.
Il pubblico dipendente che decide di esporsi a tale attività, lo fa per scelta volontaria, non essendovi obbligato, a meno che non ricopra particolari ruoli apicali previsti dal sistema anticorruzione.
Non solo, egli va incontro a qualche probabile incognita. Chi sceglie di esporsi, infatti, rischia di veder esposto il proprio nominativo (le garanzie di anonimato previste dalla norma non sono integrali).
Rischia altresì di subire una denuncia penale per i reati di calunnia o diffamazione o per eventuali altri reati presuntivamente commessi in relazione alle attività che hanno condotto alla denuncia o segnalazione. Una simile evenienza non può dirsi infrequente, se si considera la prevedibile reazione del soggetto segnalato.
Può anche essere chiamato a rispondere di responsabilità civile, nei casi in cui la segnalazione sia stata affetta da dolo o colpa grave.
Esempio di commissione di reati connessi è quello del dipendente che viene incriminato per accesso abusivo ad un sistema informatico, realizzato nel tentativo di acquisire prove a supporto della segnalazione. Il segnalante infatti deve limitarsi a denunciare fatti di cui abbia preso cognizione ma non può svolgere alcuna attività prodromica di acquisizione o di investigazione (così ha giudicato cass. 35792/2018).
Che dire però del caso in cui il segnalante, temendo di essere denunciato – per ritorsione o quale strategia difensiva – dal segnalato, abbia la necessità di acquisire elementi in suo favore e, in tale quadro, assuma condotte attive di investigazione difensiva preventiva?
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