Può capitare che il titolare di un’impresa venga attratto dall’idea di sostituire a sé un prestanome. Ciò accade, ad esempio, quando il proprietario di una società decide di affidare il ruolo di amministratore a un soggetto che lo svolgerà in modo meramente formale e sotto le sue direttive.
Il prestanome viene anche denominato testa di legno, con una locuzione mirata a sottolineare il fatto che a costui non viene chiesto di agire con il proprio cervello ma, semplicemente, di eseguire le direttive impartite dal vero titolare, che assume il nome di amministratore di fatto.
Le ragioni della sostituzione possono essere facilmente intuibili e si riassumono nel tentativo di sottrarsi alle responsabilità nascenti dal ruolo.
Responsabilità anche di carattere penale, con particolare riferimento ai reati tributari, societari e fallimentari, i quali rappresentano i campi di maggiore applicazione del descritto dualismo illecito.
In questi casi, ormai da tempo, si è consolidata la prassi giudiziaria che vede chiamati entrambi sul banco degli imputati, sia per la persecuzione del reato, sia, ancor prima, quali soggetti attinti da sequestro preventivo dei beni.
Quanto in particolare al sequestro, occorrerà valutare, a seconda dei casi concreti, se sussista il superamento di quella soglia indiziaria minima che, pur in materia di misure cautelari reali, deve sussistere per poter congelare i beni dell’indagato.
Infatti, la giurisprudenza, pur non richiedendo per l’applicazione della misura patrimoniale un quadro probatorio di spessore pari a quello necessario per la custodia cautelare, ritiene però necessario che si dia conto di specifici elementi emersi dall’indagine, da cui si possa inferire la verosimile ricorrenza del reato contestato, anche sotto il profilo dei ruoli assunti dai protagonisti.
In sostanza, devono emergere elementi indiziari anche di tipo soggettivo, nella duplice accezione di ruoli ricoperti dai soggetti e di loro volontaria assunzione dei medesimi, in vista delle finalità delittuose perseguite.
Si rende opportuna a questo punto qualche breve precisazione sulle differenze fra le due figure di amministratore di fatto e di prestanome, proprio in tema di ricostruzione delle tecniche di accertamento delle rispettive responsabilità.
Del reato fiscale – e lo stesso potrebbe dirsi, fra gli altri, per i reati societari e fallimentari – l’amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto effettivo detentore dei poteri decisionali e, più in generale, dei poteri gestori.
Gli indici rivelatori del soggetto a cui spettavano i poteri gestori effettivi sono soliti emergere dagli elementi indiziari raccolti dagli inquirenti come, ad esempio, dichiarazioni di testi qualificati – si pensi al commercialista della società – i quali siano in grado di riferire chi fosse ad avere l’ultima parola decisionale sulle scelte strategiche, come pure chi fosse a impartire le direttive sulle politiche di bilancio e sulle scelte riguardanti le dichiarazioni tributarie.
Il fatto che secondo la giurisprudenza consolidata il dato fattuale della gestione effettiva prevalga sulla qualifica formale rivestita dall’amministratore ufficiale, non deve far pensare ad un aggiramento del principio di legalità, secondo il quale nei reati propri dei soggetti che ricoprono ruoli specifici è la qualifica a determinare la punibilità.
Infatti, l’equiparazione degli amministratori di fatto a quelli formalmente investiti discende innanzi tutto da norme precise di legge, come ad esempio l’art. 2639 cod. civ., che prevede che per i reati societari, al soggetto formalmente investito della qualifica sia equiparato chi esercita in modo significativo e continuativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione.
Allo stesso modo l’art. 1, comma 4, del d.p.r. n. 322 del 1998, stabilisce che la dichiarazione dei soggetti diversi dalle persone fisiche è sottoscritta a pena di nullità dal rappresentante legale e, in mancanza, da chi ne ha l’amministrazione, anche di fatto e il d.lgs. n. 472 del 1997, all’art. 11, parifica il legale rappresentante all’amministratore di fatto, stabilendo la responsabilità anche di quest’ultimo per le sanzioni.
Si tratta peraltro di norme che esprimono un principio generale del diritto penale.
Accanto alla responsabilità dell’amministratore di fatto, che abbiamo visto essere l’autore principale del reato, può essere configurabile una responsabilità del prestanome o amministratore di diritto, a titolo di concorso nel fatto posto in essere dal primo.
Si tratta in questo caso di responsabilità per omesso impedimento dell’evento, sempre che ne ricorrano gli estremi, anche di tipo soggettivo.
Dal punto di vista oggettivo, il secondo comma dell’art. 40 c.p., prevede che non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo.
Il ragionamento che porta a condannare il prestanome si basa sul fatto che egli, in quanto amministratore di diritto, ha per definizione di legge l’obbligo di vigilare sulla gestione societaria e di impedire gli eventi pregiudizievoli, come stabilisce del resto il secondo comma dell’articolo 2392 del c.c.
E fra gli eventi pregiudizievoli rientra sicuramente la gestione disinvolta attuata da un soggetto cui, pur in assenza di poteri formali, viene consentito l’accesso alla stanza dei bottoni.
Su quest’ultimo passaggio si appunta peraltro un’ulteriore verifica che deve essere eseguita dal giudice prima di poter giungere alla condanna del prestanome, nel rispetto del principio generale che vieta la responsabilità penale di mera posizione.
Occorre verificare se il prestanome fosse a conoscenza della dubbia regolarità della gestione societaria da parte dell’amministratore di fatto.
Detto in altri termini, per la condanna penale per concorso nel singolo reato societario o comunque relativo alla gestione di impresa, non basta che l’amministratore di diritto abbia consentito ad altri di amministrare la società senza ingerirsi. Infatti egli potrebbe averlo fatto nella piena convinzione della serietà e capacità dell’amministratore di fatto.
L’ accusa deve fornire quantomeno la prova che il prestanome avesse percepito una serie di segnali dai quali poter ragionevolmente ricavare che l’amministratore di fatto stesse operando in modo illecito.
Solo attraverso questa dimostrazione, infatti, può dirsi raggiunta la certezza di una compartecipazione consapevole e dolosa da parte del concorrente; si ritiene che chi, pur in presenza di segni inequivoci, si sia astenuto dall’attivare i propri poteri impeditivi, lo abbia fatto con la volontà di compartecipare, grazie alla sua inerzia, alla determinazione dell’evento.
E con ciò si viene a far ricorso alla figura del dolo eventuale, criterio di imputazione soggettiva di difficilissima e contrastata applicazione nei reati di omicidio, cui, invece, si ricorre con frequenza nei reati societari e fallimentari.
Autore dell’articolo Enrico Leo