Processo penale: se cambia il giudice l’imputato deve attivarsi in modo tempestivo e mirato

Ci sono dei principi del processo penale che, per la loro importanza, non possono essere liquidati come semplici tecnicismi ma devono essere conosciuti e compresi anche dai non addetti ai lavori.  

Essi infatti fanno parte di quel nucleo di garanzie fondamentali la cui mancanza o la cui violazione rischia di mettere in dubbio il livello di civiltà di un sistema.

Non a caso la loro formulazione si trova proprio nella Costituzione.

Uno di questi snodi è quello del rapporto fra il giudice e il testimone.

L’articolo 111 della Costituzione afferma in proposito che nel processo penale l’imputato deve avere la facoltà di interrogare davanti al giudice le persone che possono riferire fatti determinanti per la verifica dei capi di imputazione e ciò nel rispetto del principio del contraddittorio, cui si può derogare solo in casi eccezionali.

Facoltà di interrogare davanti al giudice” è un’espressione che segna il punto di svolta fra il processo cosiddetto inquisitorio e quello accusatorio (quest’ultimo è, almeno tendenzialmente, il sistema attuale del nostro ordinamento penale). Nel primo modello la prova orale viene raccolta prima del processo, senza la presenza dell’imputato, il quale dovrà fare i conti con l’esito di una verbalizzazione introdotta nel dibattimento attraverso la semplice lettura del contenuto. Nel secondo modello, invece, il testimone rende le sue dichiarazioni davanti all’imputato, il quale può attivamente concorrere alla formazione del contenuto della verbalizzazione formulando domande e contestazioni.

Il dibattimento penale era stato concepito dai codificatori del 1988 come un rito improntato alla massima concentrazione, il che vuol dire udienze ravvicinate e sentenza emessa a breve distanza di tempo dalla raccolta delle prove, con le parole dei testi ancora vive nella memoria del giudice.

Nulla di tutto ciò è accaduto negli ultimi trent’anni.

Anche i processi importanti vedono rinvii di molti mesi fra un’udienza e l’altra, tanto che, com’è a tutti noto, anche quale oggetto del dibattito politico-giudiziario degli ultimi tempi, non è infrequente che la prescrizione maturi nel corso del primo grado di giudizio.

Nel frattempo i giudici vengono trasferiti, applicati, cambiano funzioni, vanno in maternità o in pensione. Molto spesso, dunque, nel corso del processo l’imputato si trova di fronte ad un giudice diverso, una persona che dovrà giudicarlo ma che non avrà ascoltato i testimoni e tantomeno avrà potuto cogliere quegli aspetti non verbali della deposizione che in buona parte orientano e determinano il concreto giudizio di attendibilità di un racconto.

Un dato è certo: la ricchezza di elementi conoscitivi e persuasivi che scaturisce dalle tecniche dell’esame e ancor più del controesame dibattimentale, spesso con l’ausilio del fattore sorpresa, non è quasi mai riproducibile da una ripetizione della testimonianza e mai viene resa dalla semplice lettura dei verbali.

La pubblica opinione spesso si divide fra colpevolisti e garantisti. I primi ritengono che le garanzie siano spesso eccessive ma è pressoché certo che se costoro si trovassero a rivestire il ruolo di imputato, vorrebbero poter interrogare in modo diretto chi li accusa, per tentare di far emergere nel modo più incisivo la propria versione dei fatti.

Sulla regolamentazione di questa scottante materia è intervenuta di recente la giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione (41736/2019).

Il punto di partenza è costituito dal secondo comma dell’articolo 525 cpp il quale afferma: “Alla deliberazione concorrono, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento. Se alla deliberazione devono concorrere i giudici supplenti in sostituzione dei titolari impediti, i provvedimenti già emessi conservano efficacia se non sono espressamente revocati.”

La recente pronuncia si pone il compito di rispondere essenzialmente a due domande lasciate irrisolte dai precedenti arresti nomofilattici:

(a) se, a seguito del mutamento del giudice, sia legittimata a formulare la richiesta di nuova escussione del teste soltanto la parte che ne aveva inizialmente chiesto l’esame oppure anche la controparte;

(b) se il nuovo giudice possa valutare la richiesta di nuovo esame secondo i parametri ordinari dettati dagli articoli 495 e 190, comma 1, cpp e, quindi, motivatamente non accoglierla, applicando il principio di esclusione delle prove manifestamente superflue o irrilevanti (art. 190 cpp).

Quanto al primo quesito, premessa essenziale della risposta sta nel fatto che il nuovo giudice deve provvedere alla nuova ammissione dei mezzi di prova, a seguito di specifica istanza a lui in tal senso rivolta. Egli, in mancanza di specifica istanza, potrà dunque ritenere implicitamente congruo il provvedimento ammissivo a suo tempo emesso ma dovrà esplicitamente pronunciarsi se richiesto e, in particolare, ove le parti abbiano esercitato la facoltà di depositare nuove liste testimoniali.

La logica della necessità di un provvedimento, implicito od espresso, di riammissione delle prove, rientra nel concetto, necessariamente ampio, di rinnovazione del dibattimento contemplato dal citato articolo 525 e comporta che le parti siano abilitate alla presentazione di una nuova lista testi, anche previa concessione di congruo termine, e alla conseguente nuova richiesta di prova ex art. 493 cpp.

Ne consegue che la parte che non abbia indicato il teste da esaminare nuovamente, con le relative circostanze sulle quali il nuovo esame dovrà vertere, in una lista tempestivamente depositata ex art. 468, perde in radice il diritto al nuovo esame, per mancato esercizio dell’onere che l’art. 468 cpp prevede per qualsiasi dibattimento, quindi anche per quello rinnovato.

In questa nuova prospettiva visuale si comprende che l’eventuale inerzia della parte non equivarrà a – impossibile – sanatoria della nullità assoluta legata al disposto dell’articolo 525 secondo comma ma comporterà, invece, la decadenza dal diritto all’esame per mancato esercizio dell’onere probatorio.

Da questa impostazione discende la risposta al secondo quesito.

Il nuovo esame del dichiarante già esaminato potrà essere ammesso solo se ritenuto, proprio in base ai parametri posti dall’articolo 190 cpp, non manifestamente superfluo o irrilevante e ciò con riferimento alle circostanze indicate dalla parte nella nuova lista testi.

Sulla scorta di tale principio si candidano all’inammissibilità quelle richieste di prova in cui si domanda la pedissequa reiterazione dell’esame già svolto, vale a dire la deposizione sulle stesse circostanze già compiutamente oggetto del primo esame, perché non giustificate da motivi specifici, legati alla necessità di una nuova valutazione di aspetti rimasti in dubbio o alla peculiare condizione comunicativa, anche non verbale, della prima deposizione.

La correttezza di tale interpretazione viene propugnata sulla base della comparazione con una situazione analoga, vale a dire quella configurata dall’art. 238, comma 5, cpp. Anche in quel caso ci si trova di fronte all’acquisizione di verbali di prove assunte alla presenza del difensore dell’imputato davanti a diverso giudice, eppure lì la legge prevede espressamente che la richiesta di riassunzione della testimonianza davanti al nuovo giudice debba sottostare al vaglio dei criteri posti dall’articolo 190 cpp.

L’approdo in parola è sorretto pure dalle argomentazioni utilizzate dalla Corte Costituzionale (205/2010 e 132/2019), secondo le quali il diritto al nuovo esame dei testimoni a seguito del mutamento del giudice non è assoluto ma modulabile, entro limiti di ragionevolezza, dal legislatore, restando ferma l’esigenza di prevenire il possibile uso strumentale del diritto in questione.

La Corte EDU, da parte sua, ritiene che, di norma, il mutamento della composizione del giudice dopo l’audizione di un testimone decisivo imponga la rinnovazione dell’esame, con la precisazione che tale diritto non è assoluto, sia perché si fa riferimento espresso al concetto di “teste decisivo”, sia perché il diritto in parola può essere limitato in presenza di circostanze particolari tali da giustificare l’eccezione al principio dell’oralità del dibattimento.

In conclusione, l’approdo raggiunto dalla Cassazione potrebbe avere una sua ragionevolezza di principio ove considerato nel senso di limitare le iniziative dilatorie. L’ultima parola resta ai giudici di merito che, se vorranno essere giusti, dovranno dimostrare di aver colto l’essenza di tale messaggio ed evitare di “accontentarsi” in modo sistematico della lettura delle deposizioni di testi mai visti.

Autore dell’articolo Enrico Leo

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