Inquadramento
Ipotizziamo di essere in presenza di una società, la quale abbia ricevuto un finanziamento dal socio (nella specie finalizzato a pagare un debito che altrimenti, in quel momento, non sarebbe stato possibile saldare) e che, in seguito, si trovi a dover valutare se fare fronte alla richiesta di rimborso avanzata dallo stesso socio.
In mancanza di specifica pattuizione, evenienza che spesso si verifica nella prassi, si tratta di inquadrare la natura di tale finanziamento per ascriverlo, in base ai parametri normativi, al capitale di debito o viceversa al capitale di rischio.
Da tale inquadramento interpretativo, volto a ricostruire ex post la volontà delle parti, discenderà, in prima (ma non definitiva) ponderazione, l’applicabilità o meno dell’articolo 2467 c.c. in termini di necessarietà della postergazione dell’eventuale rimborso.
Occorre poi considerare, in seconda ponderazione, che, attesa la specifica natura e funzione dell’articolo 2467 cc, l’obbligo di postergazione, ricorrendo le condizioni di legge, vige anche in presenza di clausola contrattuale che qualifichi il finanziamento come vero e proprio mutuo.
Sarà bene esaminare separatamente le due questioni.
La natura del finanziamento
Sul punto può essere utile quanto riassunto da Cass. civ., Sez. I, 17/10/2018, n. 26004, la quale afferma che l’erogazione di somme che a vario titolo i soci effettuano alle società da loro partecipate può avvenire a titolo di mutuo, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento, destinato ad essere iscritto non tra i debiti, ma a confluire in apposita riserva “in conto capitale” (o altre simili denominazioni). Tale ultimo contributo non dà luogo ad un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo del bilancio di liquidazione, ed è più simile al capitale di rischio. Ciò posto, l’accertamento della natura del versamento è questione di interpretazione della volontà delle parti.
E a tali fini non è dirimente l’assenza di prova di una pattuizione di interessi, elemento non essenziale del mutuo, o la mancata previsione di un termine per la restituzione, il quale può essere fissato dal giudice avuto riguardo alle circostanze. Si tratta infatti di profili meramente eventuali rispetto allo schema del mutuo.
In mancanza di altri indici sintomatici, potrebbe quindi assumere efficacia dirimente anche la sola classificazione del prestito in bilancio, ove in ipotesi iscritto fra i debiti e non al patrimonio netto.
L’obbligo di postergazione
L’obbligo di postergazione è qualcosa che in parte prescinde dalla stessa natura del finanziamento per come, direttamente o indirettamente, concepito e voluto dalle parti.
Sul punto si possono menzionare le chiare considerazioni espresse da Cass. civ., Sez. I, 15/05/2019, n. 12994.
Tale pronuncia chiarisce la natura e gli effetti della norma in discorso, affermando che la ragione dell’art. 2467 c.c. consiste nell’intento di contrastare la sottocapitalizzazione delle società, ove attuata in un momento in cui essa possa diventare una modalità per far gravare sui creditori e sui terzi il rischio della continuazione dell’attività in regime di crisi, con aggravamento del dissesto. In altri termini la norma contempla il caso in cui i soci, volendo proseguire l’attività pur in situazione critica, non intendano rischiare nuovo denaro ma lo eroghino sotto forma di prestito con lo scopo di riprenderlo prima degli altri creditori nel caso in cui la società non si risollevi e scivoli invece verso il dissesto. In queste ipotesi i soci avrebbero invece l’obbligo di scegliere fra ricapitalizzazione o cessazione dell’attività.
La particolarità tecnico giuridica della postergazione sta nel fatto che essa non opera una riqualificazione del prestito da finanziamento a conferimento ma incide, invece, ex lege, solo sull’ordine di soddisfazione dei crediti.
I finanziamenti in questione, pertanto, pur continuando ad essere prestiti, subiscono un effetto automatico di graduazione nella fase del pagamento, consistente nel potere del giudice di accertare, anche d’ufficio, quale fosse la situazione della società al momento del prestito e quale sia quella esistente al momento della richiesta di rimborso.
La postergazione finisce, così, per funzionare da condizione legale integrativa della volontà delle parti in punto di rimborso. Tale condizione legale prevede che la società debba rifiutare il rimborso del prestito sino a quando non sia venuta meno la situazione di squilibrio in cui versava e, in ipotesi, versi la società.
La valutazione, per essere più precisi, dovrà essere doppia, vale a dire relativa alla sussistenza di una delle situazioni ex art. 2467 c.c., comma 2, sia al momento della concessione del prestito, sia al momento della richiesta di rimborso.
Va da sé che, ove tale situazione di squilibrio fosse stata mancante al momento della concessione del prestito non si potrebbe neppure parlare di obbligo di postergazione, mentre ove fosse stata presente il giudice dovrebbe altresì verificare la sua permanenza al momento della richiesta di rimborso.
Con il che rimane chiaro per quale ragione si parli di obbligo di postergazione come condizione temporanea – e non assolua o definitiva – di inesigibilità del credito.
E, infatti, la sentenza ha enunciato i seguenti principi di diritto:
“La postergazione disposta dall’art. 2467 c.c., opera già durante la vita della società e non solo nel momento in cui si apra un concorso formale con gli altri creditori sociali, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento, sino a quando non sia superata la situazione prevista dalla norma.
La società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento, in presenza della situazione di difficoltà economico-finanziaria indicata dalla legge, ove sussistente sia al momento della concessione del finanziamento, sia al momento della richiesta di rimborso, che è compito dell’organo gestorio riscontrare mediante la previa adozione di un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società.”
Disciplina del rimborso del prestito alla luce dei rischi penali in caso di insolvenza della società
Abbiamo visto fin qui come, in molti casi, la società e per essa il suo amministratore, debba fare i conti con una situazione dai confini incerti.
Gli elementi di incertezza risiedono proprio nella difficoltà di inquadrare in modo corretto – o meglio in modo che, in un secondo momento, ad opera di un curatore, di un giudice o di un pubblico ministero, possa essere ritenuto corretto – sia la natura del finanziamento, sia la condizione patrimoniale e finanziaria in cui la società lo ha ricevuto, sia la condizione in cui si trova la società al momento della richiesta di rimborso.
Tutte valutazioni facili in teoria ma difficili se declinate nelle molteplici sfumature del reale.
I rischi nascenti dal rimborso dei finanziamenti, oltretutto, non sono legati solo all’eventuale esperimento dell’azione revocatoria o ad altre scansioni delle procedure liquidatorie giudiziali ma possono presentare concreti risvolti penali.
Si legga ad esempio Cass. pen., Sez. V, 15/11/2021, n. 124 a mente della quale l’amministratore risponde del reato di bancarotta preferenziale qualora paghi un credito verso la società che sia certo, liquido ed esigibile, mentre sussiste il delitto di bancarotta patrimoniale nel caso in cui disponga il rimborso al socio, in violazione della regola della postergazione posta dall’art. 2467 c.c., di un finanziamento in precedenza erogato.
In sostanza, in quest’ultima ipotesi viene ritenuta la più grave condotta distrattiva, in quanto il pagamento viene considerato non dovuto e ciò proprio a causa di quella condizione di inesigibilità legale di cui si è parlato sopra.
Nella prima ipotesi, vale a dire quella in cui il rimborso del finanziamento viene eseguito in uno stato di insolvenza ma in assenza ab origine dei requisiti della postergazione, è possibile invece incorrere nella figura delittuosa, meno grave, della bancarotta preferenziale, la quale ricorre proprio nel caso in cui, in condizione di dissesto conclamato, si disponga il rimborso di un finanziamento che, seppure esigibile, venga pagato al di fuori della doverosa concorsualità e con preferenza rispetto ad altri creditori.
Seppure nei richiamati casi vi sia un concreto rischio di incriminazione, occorre sempre ricordare che entrambi i reati appena indicati richiedono, per la loro esistenza, l’elemento psicologico del dolo. Questo, a sua volta, può sussitere solo in presenza di una piena coscienza e consapevolezza della ricorrenza, in concreto, delle condizioni che impongono la postergazione o di quelle che impongono la concorsualità dei pagamenti.
E’ pertanto intuitivo che quegli elementi di incertezza e di conseguente difficoltà di inquadramento del tipo e della condizione dei finanziamenti soci, appena sopra richiamati, non possano non ridondare, almeno nei casi connotati da maggiori sfumature, in una concreta difficoltà di accertamento del dolo, da valutare caso per caso, con l’ausilio di una accorta disamina consulenziale e di una efficace attività difensiva.
Per aggiungere una esemplificazione alle riflessioni fin qui sommariamente condotte, si potrebbe pensare al caso di un amministratore che, nel dubbio e per cautela, in una situazione di reale incertezza, disponga la restituzione del prestito solo a fronte di un obbligo (assistito da idonea garanzia) del socio percipiente a tenere le somme a disposizione per le necessità dell’eventuale fase liquidatoria, con impegno ad uniformarsi ai provvedimenti giudiziari che in tale fase dovessero essere assunti.
Una tale condotta, ove beninteso priva di contaminazioni frodatorie in termini di accordo illecito col socio, potrebbe far propendere per un’assoluta assenza degli elementi costitutivi del reato, innanzi tutto del dolo. Nello stesso tempo potrebbe contemperare l’interesse al regolare svolgimento della fase liquidatoria con una cautela reale per i diritti del socio richiedente.