Bancarotta per distrazione, la rilevanza del pericolo concreto per i diritti dei creditori

  In considerazione degli sviluppi della giurisprudenza di legittimità, sarà bene approfondire alcuni aspetti del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale.

  Si tratta infatti di profili che spesso vengono utilizzati, quali argomenti difensivi, da coloro che si trovino ad essere imputati per tale reato.

  Tali profili si riferiscono a:

  • distanza cronologica intercorrente fra l’atto ipoteticamente distrattivo e la verificazione del dissesto;
  • rilevanza economica dell’atto ipoteticamente distrattivo rispetto al pregiudizio che si trovano a patire i creditori in esito alla procedura concorsuale;
  • maggiore o minore inerenza dell’atto rispetto agli interessi aziendali, fatto riferimento ai criteri di ragionevolezza imprenditoriale.

  L’analisi di tali aspetti deve essere ben condotta e valorizzata in considerazione del progressivo affermarsi in giurisprudenza di un’esigenza di verifica, in concreto, dell’offensività del singolo fatto astrattamente ascrivibile nel paradigma della bancarotta patrimoniale.

  In epoca più risalente, infatti, i tribunali ritenevano integrato il reato solo sulla base della fuoriuscita del bene dall’azienda senza adeguata contropartita, anche a prescindere da un’analisi dell’epoca in cui detta fuoriuscita era avvenuta e, di conseguenza, della ragionevole prevedibilità, in quel momento, del pregiudizio per le ragioni creditorie, pregiudizio che si sarebbe verificato se e quando fosse intervenuto uno stato di insolvenza che, al momento dell’atto incriminato, ancora non sussisteva.

  Detto in altri termini, ritenevano che la semplice fuoriuscita del bene senza contropartita adeguata, concretasse l’effetto di danno per il patrimonio aziendale di cui il reato consisteva.

  Oggi sembrerebbe prevalere, invece, una ricostruzione del reato in termini di pericolo concreto, il che impone al giudice di verificare la concreta messa in pericolo dei diritti dei creditori, sulla base di un’analisi che, partendo dall’elemento oggettivo della condotta, si estenda poi a quello soggettivo.

  In sostanza, la Cassazione, al fine di evitare imputazioni per mera responsabilità oggettiva, tende a far leva sul concetto di offensività in concreto del comportamento asseritamente distrattivo. Si tratta però di un approccio più nominalisticamente contemplato che realmente applicato.

  E, di conseguenza, come spesso accade, la presunta novità di vedute finisce per andare a coincidere con quei vecchi principi che, in determinate e ben limitate ipotesi, avrebbero comunque condotto all’assoluzione dell’imputato.

  In sostanza, il fatto che l’atto ipoteticamente distrattivo sia stato posto in essere in un’epoca in cui la società non accusava alcun segnale di allerta, come pure la valutazione della rilevanza economica dell’atto ipoteticamente distrattivo rispetto al pregiudizio delle ragioni dei creditori, sono criteri che portano ad escludere la bancarotta distrattiva – come già accadeva in passato – solo in casi limite.

  Casi nei quali o la rilevanza economica dell’operazione è minima oppure si tratta di un atto in cui l’assenza di corrispettivo non sia così evidente, rientrando lo stesso in uno scambio che non può essere sindacato per non violare il principio della discrezionalità delle scelte imprenditoriali (Business Judgement Rule).

  Nella stragrande maggioranza dei casi di distrazione, però, ciò che avviene è ben diverso.

  E, infatti, una recentissima sentenza della cassazione (19/04/2024, n. 16414) che aderisce apertamente al criterio del reato a pericolo concreto, non manca contemporaneamente di affermare che l’atto è sicuramente distrattivo nel caso emerga un’irriducibile estraneità dello stesso rispetto a qualsiasi canone di ragionevolezza imprenditoriale.

  In questo caso, gli altri criteri di valutazione sembrano decisamente recessivi.

  La stessa pronuncia concede una maggior flessibilità solo rispetto ad ipotesi di bancarotta semplice, col dire che l’imprenditore individuale (caso oggi ben liminare) è abilitato a fare spese personali o per la famiglia anche non di minima entità, ove la condizione economica dell’impresa glielo consenta. Ma, a ben vedere, questo riferimento, lungi dal rappresentare una novità interpretativa, costituisce la mera riproposizione del dettato normativo (art. art. 217 comma 1 n. 1 I. fall.).

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