Il ricorso per cassazione in materia penale – gli avvocati lo sanno – rappresenta una strada che col passare del tempo è divenuta sempre più stretta.
Questo progressivo restringimento dei margini di accoglibilità (in realtà si tratta molto spesso di un argine che determina addirittura l’inammissibilità dell’impugnazione), è dovuto ad almeno due ragioni concomitanti: l’esigenza di chiudere prima possibile un iter processuale quasi sempre lunghissimo, scongiurando così la prescrizione, e la necessità di porre un limite al numero, troppo elevato, dei procedimenti pendenti.
In sostanza, i giudici hanno assunto, in modo abbastanza consapevole e condiviso, un atteggiamento volto a scoraggiare le impugnazioni di terzo grado.
Non mette conto qui di valutare se a tale compito, che in senso lato potremmo definire improprio, perché di politica giudiziaria, corrisponda poi una giustizia sostanziale con riferimento a quei risultati che le parti del processo vivono sulla propria pelle.
Rispetto a tale quadro è invece opportuno esaminare brevemente un istituto che spesso ricorre nelle sentenze che decidono per l’inammissibilità del ricorso: il travisamento della prova.
La lettera e) dell’articolo 606 cpp. afferma, com’è noto, che uno dei motivi per cui si può impugnare per cassazione una sentenza penale consiste nel lamentare la mancanza o la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione. Tale motivo, però, può essere invocato solo quando le dette mancanze risultino dallo stesso testo della sentenza.
Con quest’ultima precisazione, la legge ha voluto restringere l’area dei possibili ricorsi a quei casi di contraddittorietà o carenza logica così manifesta da risultare dalla semplice lettura del testo.
La differenza non è di poco conto. Essa, trasposta sul piano meramente logico, attiene alla diversità fra l’incongruenza intrinseca e quella estrinseca ed è una differenza che può essere apprezzata e compresa anche facendo riferimento al semplice discorso argomentativo pronunciato dall’uomo della strada. Tale discorso potrà essere definito intrinsecamente illogico se un uomo medio, semplicemente ascoltandolo, non potrà far altro che rilevare come i suoi principali passaggi dimostrativi si discostino dalla comune e condivisa esperienza. Il discorso sarà invece estrinsecamente illogico quando tale giudizio potrà venire in evidenza unicamente all’esito di un confronto fra le argomentazioni utilizzate e gli elementi di fatto, esterni, a cui esse fanno richiamo.
Lo scopo per cui il codice ha voluto contemplare solo la illogicità intrinseca sta nel fatto che quella estrinseca avrebbe inevitabilmente richiamato davanti alla Corte Suprema, che è giudice di legittimità, l’intera valutazione delle prove, che è invece materia già fisiologicamente elaborata nei due gradi di merito.
Una piccola breccia è stata aperta nel 2006 (L. n. 46 del 2006), allorquando il legislatore, modificando l’articolo in commento, ha aggiunto alla lettera e) l’inciso in base al quale l’illogicità denunciabile in cassazione è anche quella risultante “da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.
Anche rispetto a tale formulazione la giurisprudenza si è affrettata a porre limiti.
Innanzi tutto, si è deciso che ricorre tale motivo di censura quando la motivazione poggia, in modo determinante, su una risultanza probatoria che invece non esiste oppure quando risulta omessa la valutazione di una prova decisiva.
In secondo luogo, ammesso che ricorrano tali prime evenienze, deve poi accadere che l’errore sia di tale portata da disarticolare l’intero ragionamento probatorio su cui poggia la condanna; occorre cioè che il dato errato sia così importante che la sua presenza abbia reso (o renda) vana qualsiasi ricostruzione alternativa.
In sostanza, per sperare che il motivo di ricorso venga accolto, occorre dimostrare che il giudice del merito ha basato la sua decisione sulla presunta esistenza di una prova che, per contro, nel fascicolo processuale non esiste oppure che ha omesso di considerare una prova decisiva, che invece era ben presente nelle carte processuali.
In questi casi si dice che il giudice del merito ha travisato le risultanze delle prove acquisite.
Il che non si discosta, sotto il profilo terminologico, dal significato comune della locuzione: travisare i fatti, in senso figurato, vuol dire interpretare la realtà in modo diverso dalle risultanze oggettive.
Come se le precisazioni e le limitazioni espresse finora non bastassero, in molte vicende processuali che ruotano intorno al motivo di ricorso in parola si innesta anche l’incidenza limitativa della cosiddetta doppia conforme.
Ci si trova dinanzi ad una “doppia conforme” quando la pronuncia di condanna in primo grado è stata confermata in appello e, più specificamente, si può parlare appieno di tale evenienza quando i giudici dei due gradi di merito abbiano esaminato lo stesso materiale probatorio ed abbiano raggiunto un giudizio sostanzialmente conforme rispetto al suo significato dimostrativo.
Parzialmente diverso è il caso in cui in appello ci sia stato un supplemento istruttorio e tale supplemento abbia prodotto una specifica aggiunta motivazionale.
In caso di doppia conforme si suole dire che le due motivazioni (quella della sentenza di primo grado e quella di appello) si integrano sino a formare un apparato argomentativo unitario.
In questa ipotesi, si suole ripetere che, col successivo ricorso per cassazione, non può essere sollevato il vizio di travisamento della prova. Tale affermazione, però, poggia su di un elemento che, spesso dato per implicito, necessita invece di chiarimento. La ragione implicita di indeducibilità viene – spesso laconicamente – radicata nel concetto di assorbimento, da parte della sentenza di appello, di quanto devoluto con il gravame.
In sostanza, si dà per presupposto che la sentenza di appello, conforme a quella di primo grado, abbia integrato la prima motivazione e abbia, in questo modo, assorbito e tacitato gli eventuali vizi del ragionamento del giudice di prima istanza.
Questa presunzione, però, può essere vinta in almeno due evenienze, che l’impugnativa dovrà provvedere ad evidenziare. La prima è quella in cui il giudice d’appello, per rispondere alle critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice, a maggior ragione quando tali atti siano stati assunti in sede di supplemento istruttorio in appello. La seconda ricorre quando il travisamento, già verificatosi con la sentenza di primo grado, sia stato puntualmente denunciato al giudice di appello e da questi trascurato, con la conferma della prima sentenza e l’omissione dell’esame del vizio censurato (cfr. in proposito Sez. 5, n. 1927 del 20/12/2017).
autore dell’articolo Enrico Leo