Fino a una trentina di anni fa la giurisprudenza penale in tema di colpa medica, con riferimento ai delitti di omicidio colposo e di lesioni colpose causati da imperizia (non quindi nei casi di pura negligenza o imprudenza), ne limitava la responsabilità alle ipotesi di colpa grave. Tale orientamento si rifaceva all’articolo 2236 del codice civile, il quale, com’è noto, prevede che il professionista intellettuale, ove la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave.
Si trattava, in sostanza, di una trasposizione della norma civilistica in area penale, operazione che poteva dirsi legittima (e come vedremo, almeno in parte, lo può tutt’ora) seppure nei limiti dell’ambito di riferimento, che sono quelli della dedotta violazione delle leges artis e con riferimento alla soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.
In questo senso, la detta trasposizione era stata avallata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 166 del 1973.
La detta risalente giurisprudenza, però, aveva raccolto critiche di eccessiva benevolenza, avendo finito per ritenere che l’area del “problema tecnico di speciale difficoltà” fosse l’ordinario terreno di svolgimento della professione medica, la quale doveva essere esentata da pena per le ipotesi di colpa non grave.
Tale indirizzo è stato quindi rivisto dalla successiva giurisprudenza di legittimità, che, negando l’applicabilità dell’art. 2236 c.c. al diritto penale, ha affermato che nella materia in questione debbano trovare spazio solo gli ordinari criteri di valutazione della colpa di cui all’art. 43 c.p.
La graduazione della colpa, eventualmente anche in riferimento alla maggiore difficoltà tecnica, veniva in gioco solo ai fini della determinazione della pena, senza però legittimare zone franche quanto al giudizio sulla responsabilità.
Mette conto di aggiungere che, sul finire del millennio, l’oscillazione del pendolo verso l’accentuazione della colpevolizzazione dei medici in sede penale aveva compiuto la sua totale escursione. Il binario lungo il quale si era realizzato l’ultimo tratto era stato, però, non più quello dell’elemento soggettivo ma quello del nesso di causalità.
La giurisprudenza prevalente era giunta a ritenere che, ai fini della sussistenza del nesso, fosse sufficiente l’accertamento di una mera relazione statistica fra l’azione omessa o contestata e l’evento. Ciò fino al noto e fondamentale arresto della sentenza Franzese (Cass. pen. Sez. Unite, 11-09-2002, n. 30328), che mise mano ad una più attenta e puntuale definizione del nesso eziologico, in particolare nello statuto della causalità omissiva.
Tornando alla questione dell’elemento soggettivo, in tempi recenti la distinzione tra culpa levis e culpa lata è stata oggetto della novella introdotta dal D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 3, comma 1, convertito, con modificazioni dalla L. 8 novembre 2012, n. 189 (cd decreto Balduzzi), che aveva stabilito (per poi essere abrogata dalla cd legge Gelli-Bianco): “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve“.
La Corte di Cassazione, nell’interpretare tale novella, era giunta, non senza difficoltà e contrasti, alla prevalente opzione volta ad eliminare la rilevanza penale della colpa lieve, rispetto alle condotte, sia negligenti che imperite, che, pur se di fatto lesive, fossero state coerenti con le linee guida o pratiche terapeutiche accreditate dalla comunità scientifica. In particolare, si era evidenziato che la norma aveva dato luogo ad una abolitio criminis parziale degli artt. 589 e 590 c.p., avendo confinato l’area penalmente rilevante nel recinto della sola colpa grave (Sez. 4, Sentenza n. 11493 del 24/01/2013, Pagano, Rv. 254756; Sez. 4, Sentenza n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105; Sez. 4, Sentenza n. 47289 del 09/10/2014, Stefanetti, Rv. 260739).
Ciò, lo si ripete, non senza che continuassero ad agitarsi questioni ermeneutiche ed applicative di non poca importanza, soprattutto intorno alla distinzione fra colpa lieve e colpa grave e all’ambito di operatività da assegnare all’osservanza delle linee guida.
Ci torneremo di qui a poco, poiché le carte dell’interpretazione sono state nuovamente mescolate da un legislatore non tanto accurato quanto prolifico, che con la L. 8 marzo 2017, entrata in vigore il primo aprile del 2017, ha modificato nuovamente la norma sulla responsabilità penale del medico (o altro esercente una professione sanitaria) per i reati colposi di lesioni e omicidio, abrogando il cd decreto Balduzzi.
L’art. 6 della legge ha introdotto l’art. 590 sexies c.p., che stabilisce:
“Se i fatti di cui agli artt. 589 e 590, sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal comma 2.
Qualora l’evento si è verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto“.
L’articolo 5 della legge, al primo comma, ha poi specificato che
Art. 5. Buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida
1. Gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali.
Le linee guida dovrebbero essere disponibili al seguente indirizzo web dell’Istituto Superiore di Sanità: https://www.snlg-iss.it/.
Dall’excursus fin qui condotto, si può agevolmente ricavare che, nel breve volgere di un quinquennio, la responsabilità penale dei medici è ricaduta sotto il dominio di tre norme, che si sono succedute nel disciplinarne l’elemento soggettivo: l’art. 43 c.p., il decreto Balduzzi e la legge Gelli-Bianco.
La più ovvia conseguenza risiede nel fatto che, un giudice che dovesse sentenziare su un fatto verificatosi ad esempio nell’anno 2011, dovrebbe scegliere, fra le tre norme, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, del codice penale, la disciplina più favorevole al reo.
Proprio su tale questione è emerso un contrasto all’interno della quarta sezione della Suprema Corte, rappresentato da due pronunce del 2017, la 28187 (Tarabori) e la 50078 (Cavazza).
I due orientamenti hanno propugnato differenti ricostruzione del contenuto delle norme in rassegna e in particolare dell’art. 6 dell’ultima legge, con la conseguenza pratica che, a mente del primo, quella più favorevole è risultata la Balduzzi, mentre secondo la sentenza Cavazza la norma più favorevole sarebbe quella posta dalla Gelli-Bianco.
Il contrasto è stato composto dalla SS.UU. del 21 dicembre 2017, della quale, al momento (29 12 17) è disponibile solo l’informazione provvisoria (n. 31) diffusa dalla Corte.
La sentenza, al fine di dirimere la controversia, ha operato una propria, autorevole interpretazione dell’ambito di operatività della più recente riforma, con ciò fornendo la chiave di lettura per orientare i giudici di merito nell’applicazione del diritto intertemporale.
Per comprendere il significato del risultato interpretativo finale, si rende indispensabile eseguire una breve disamina delle tesi contrapposte e, in particolare, di quella sostenuta dalla sentenza Tarabori, che conduce un’analisi piuttosto accurata e illuminante delle due leggi, le quali, fin troppo semplici nella loro formulazione letterale, finiscono per mostrare all’interprete qualche vuoto di troppo su punti cruciali.
Secondo la Tarabori, la Gelli-Bianco, ad una prima lettura si rivela contraddittoria. Essa afferma che non è punibile l’agente che rispetta le linee guida accreditate, purché le stesse risultino adeguate alla specificità del caso concreto.
“Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.”
Sembrerebbe del tutto evidente la non colpevolezza rispetto all’evento lesivo di colui che abbia rispettato linee guida adeguate al caso concreto.
Senonché, nella prima parte del testo, si legge che detto trattamento trova applicazione “quando l’evento si è verificato a causa di imperizia“.
“Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.”
Ci troviamo dunque in una fattispecie normativa che descrive un medico che ha provocato un evento a causa di imperizia ma lo ha fatto avendo applicato pertinenti linee guida, le quali, con riferimento al caso concreto, erano state elaborate proprio per evitare eventi dannosi del tipo invece verificatosi.
Insomma, un medico perito e imperito nello stesso tempo, a fronte di un paziente che, se non proprio perito, ha quantomeno subito un evento ingiustamente lesivo.
E, si badi bene, occorre aggiungere che la norma, nonostante parli di esclusione della punibilità, è chiaramente indirizzata ad operare sul piano soggettivo della valutazione della colpa e non invece su quello, ad esempio, delle scriminanti in senso tecnico.
E quindi potrebbe sembrare ancor più incongruo parlare di imperizia, vale a dire di un categoria classica della colpa, e contemporaneamente di applicazione di pertinenti linee guida, vale a dire di una estrinsecazione di competenza e diligenza.
Una prima possibilità di risoluzione della contraddizione potrebbe essere data da una lettura secondo la quale il legislatore avrebbe voluto escludere la punibilità nei confronti di quel sanitario resosi colpevole di imperizia che, però, nonostante l’errore verificatosi, aveva comunque applicato, almeno all’inizio, le linee guida.
Secondo questa visione, alla domanda sulla ragione di verificazione dell’errore pur in presenza di linee guida, verrebbe data risposta ricordando che le linee guida si riferiscono di solito a un inquadramento generale della diagnosi o della terapia, mentre l’errore può annidarsi in una fase meramente esecutiva della direttiva accreditata o comunque in una fase “non specificamente coperta” dalla linea codificata.
La sentenza propone l’esempio di un chirurgo che “imposta ed esegue l’atto di asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida e, tuttavia, nel momento esecutivo, per un errore tanto enorme quanto drammatico, invece di recidere il peduncolo della neoformazione, taglia un’arteria con effetto letale”.
L’esempio vuole dimostrare che, nonostante la corretta impostazione dell’atto, nessuna linea guida può mettere integralmente al riparo da un errore che può consumarsi in una frazione di condotta e in una frazione di secondo.
Cosa deve fare il giudice in questi casi?
Applicare la riforma in senso strettamente letterale laddove indubbiamente essa afferma “la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida…” e, di conseguenza, ritenere che aver impostato la condotta in conformità alla best practis possa rendere ininfluente sulla valutazione della colpa l’incidentale imperizia?
Ritenere che l’errore nella fase incidentale di un atto complesso, improntato al dettame della pratica accreditata, possa essere ascritto a disattenzione, come tale fuori dall’area della nuova norma?
Secondo la sentenza in commento, in casi del genere non si può escludere la colpa per il solo fatto che le linee guida siano state rispettate.
Ciò perché tale soluzione “sarebbe irragionevole, vulnererebbe il diritto alla salute del paziente e quindi l’art. 32 Cost., si porrebbe in contrasto con i fondanti principi della responsabilità penale”.
Sul punto occorre condurre un’analisi più approfondita e sistematica per verificare se essa possa scalzare l’incongruità nascente dal mero approccio letterale.
Come sempre, il “diritto vivente” ha il compito di far funzionare in modo conforme alla costituzione il diritto scritto.
E il diritto penale deve essere innanzi tutto considerato alla luce del principio costituzionale di colpevolezza, in base al quale la punizione deve essere la conseguenza di una ben determinata rimproverabilità della condotta.
Per ciò che riguarda in particolare il terreno, spesso scivoloso, della colpa, l’adesione al canone costituzionale di ragionevolezza e di prevedibilità delle conseguenze di una condotta, impone che la colpevolezza non si debba estendere a tutte le possibili conseguenze della violazione di una prescrizione, ma solo a quelle che la norma mirava a prevenire.
Occorre, in altri termini, ricostruire la norma incriminatrice in modo che, accanto al nesso di causalità materiale, che di per sé si limiterebbe a verificare la sussistenza di una responsabilità oggettiva, sia individuabile un nesso di causalità della colpa.
Causalità della colpa vuol dire esistenza di un nesso psichico fra la condotta e la conseguenza. Detto nesso, vale a dire la riferibilità psichica e con essa la colpevolezza, sussiste a patto che: vi sia una regola posta chiaramente a presidio della verificazione di uno specifico evento, poiché basata sulla conoscenza della relazione causale tra condotta e risultato temuto; vi sia, altresì, l’evitabilità dell’evento attraverso un comportamento diligente, dettato dalla regola, che abbia serie possibilità di scongiurare il danno.
Sussiste la colpevolezza non per tutte le possibili conseguenze di un comportamento vietato ma solo per quelle contemplate da una regola che menzioni una relazione causale atta a descrivere la dinamica dell’evento da scongiurare, legandola al detto comportamento.
In sostanza, il trasgressore è meritevole di pena per aver avuto modo di rappresentarsi le conseguenze della condotta colposa così come descritte dalla norma e ha diritto a non vedersi attribuire conseguenze che egli non poteva preventivare, in quanto non descritte dalla norma medesima.
La pronuncia in rassegna utilizza il richiamato statuto della colpevolezza per sostenere che così come la colpevolezza può essere affermata solo in presenza di un evento pertinente rispetto alla regola violata, allo stesso modo essa può essere esclusa solo in presenza di quel tipo di evento prefigurato dalla regola di esclusione e non di eventi di altro tipo.
L’esempio che viene proposto è quello del conducente di un’auto che impegni un incrocio con semaforo rosso determinando un incidente mortale. Costui non potrebbe invocare l’esonero da responsabilità per il solo fatto di aver rispettato il limite di velocità, proprio per mancanza di pertinenza fra la norma rispettata e l’evento.
Sia per il caso di chi rispetti i limiti di velocità ma, passando con il rosso, provochi la morte di un uomo, sia per quello del medico che rispetti le linee guida ma, eseguendo in modo imperito una manovra non disciplinata dalle dette linee, provochi la morte del paziente, ove esistesse una norma di esonero da responsabilità, essa sarebbe censurabile per contrasto con le fondamentali esigenze di bilanciamento fra valori costituzionali.
Al fine di meglio esplicitare la questione del bilanciamento di valori, la sentenza si diffonde sulla ratio dell’ultima riforma.
Le linee guida costituiscono espressione pratica del sapere scientifico, reso disponibile in forma codificata, al fine di orientare e rendere omogenee le decisioni terapeutiche, sottraendole a pericolosi soggettivismi.
E’ un po’ quello che accade nel rapporto fra giudice nomofilattico e giudicante di merito: il secondo dovrebbe tendenzialmente aderire alle indicazioni del primo – salve motivate specificità del caso concreto – onde evitare incontrollato soggettivismo e imprevedibilità della sentenza.
L’importanza delle linee guida si coglie appieno ove si consideri che la fattispecie colposa delineata in generale dall’art. 43 c.p., nella forma in cui richiama l’imprudenza, la negligenza e l’imperizia, ha necessità di essere integrata da quelle che, a seconda dei singoli delitti colposi, costituiscono le cautele, le prescrizioni e gli aspetti tecnici di settore. Tali precisazioni costituiscono peculiare e ineliminabile espressione dei principi di legalità, determinatezza, tassatività, in una tipologia di incriminazione fortemente indeterminata come quella della colpa generica.
Nonostante il benemerito ruolo orientativo delle linee guida appena richiamato, occorre aggiungere che esse non possono avere la pretesa di regolamentare ogni aspetto della relazione terapeutica fra medico e paziente.
Ne discende, come già sopra argomentato, che, in tutti quegli ”spezzoni” di condotta diagnostica e terapeutica che si svolgono senza poter trovare un riferimento di dettaglio in uno specifico protocollo, la generica osservanza delle linee guida costituisce un aspetto della condotta del medico che non è in grado di contribuire alla spiegazione dell’evento lesivo e, di conseguenza, non è in grado di escluderne la rimproverabilità colposa.
La pronuncia in commento aggiunge ulteriori ragioni che valgono a sostenere l’interpretazione prescelta.
Ci si riferisce, da una parte, al fatto che i reati di colpa sanitaria costituiscono un primario strumento di protezione dei beni della vita e della salute. Dall’altra al fatto che l’ambito terapeutico costituisce un contesto difficile e di primaria importanza, che giustifica, dal punto di vista normativo e interpretativo, una particolare e accorta valutazione dei casi di responsabilità.
Questa seconda esigenza appare, anche in chiave limitativa della responsabilità, nel già citato art. 2236 cod. civ. e nella richiamata sentenza costituzionale n. 166 del 1973, come pure nel decreto Balduzzi.
Da una parte, dunque, il diritto alla salute e la tutela della vita, dall’altra l’esigenza di migliorare la macchina della sanità, sia razionalizzando la spesa che scoraggiando la medicina difensiva.
Le due opposte esigenze, quella di non scoraggiare l’iniziativa del professionista e quella di non indulgere verso l’imperizia o l’inerzia, sono i due termini di un bilanciamento che, ove virtuoso, è esso stesso volto alla tutela della salute e della vita.
Detto bilanciamento è stato ritenuto virtuoso, vale a dire, ai nostri fini, costituzionalmente accettabile, allorquando abbia limitato la responsabilità solo per l’imperizia e solo nei casi in cui la prestazione comporti la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.
Per contro, la deroga alla disciplina generale della responsabilità per colpa non avrebbe costituzionale ragion d’essere, anche sotto il profilo visuale del principio di uguaglianza, ove si riferisse alla negligenza o all’imprudenza, atteggiamenti riprovevoli che nulla hanno a che fare con la speciale difficoltà dell’arte medica.
Il quadro così delineato conduce i giudici della sentenza Tarabori a interpretare l’art 590 sexies c.p. come norma che si riferisce ad eventi lesivi originati da condotte governate dalle linee guida accreditate.
Perchè sia esclusa la responsabilità è altresì necessario che le linee guida prescelte si rivelino appropriate rispetto al caso concreto e che non ci siano valide ragioni che possano suggerire di discostarsene.
L’articolo 590 sexies c.p. non può trovare però applicazione in relazione alle condotte imperite che, sebbene poste in essere nell’ambito di una vicenda terapeutica governata in astratto da linee guida, non risultino per nulla da queste disciplinate nel dettaglio.
Così come non può trovare applicazione, l’abbiamo già detto, per le condotte imprudenti o negligenti.
In definitiva, l’articolo 590 sexies c.p. esclude qualsiasi tipo di colpa unicamente con riferimento a quelle condotte – scelte diagnostiche, scelte terapeutiche o metodiche specifiche – che siano compiutamente descritte da una pertinente linea guida. Venendosi a verificare un evento lesivo, a causa di imperizia, nell’ambito di queste condotte, il contegno del medico, per quanto imperito, non potrà mai essere considerato colposo. Detto in altri termini, nell’ambito delle condotte in parola, l’evento lesivo da imperizia è considerato sempre alla stregua di un’ineliminabile alea nascente dal fatto che la medicina e la matematica sono ancora scienze diverse.
La sentenza in commento non manca di riferirsi da ultimo alle problematiche di diritto intertemporale poste dalla nuova norma, considerando che, ancora oggi, pendono giudizi per fatti posti in essere sia prima della riforma Balduzzi, che dopo di essa ma prima della riforma Gelli-Bianco.
Nella ricerca della norma più favorevole, ove applicabile perché in vigore al tempo del fatto commesso, occorrerà tenere conto dei seguenti approdi:
– L’articolo 590 sexies c.p. non trova applicazione negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee guida; non può essere applicato neppure nelle situazioni concrete nelle quali tali raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese; e neanche in relazione alle condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti ed appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo. I fatti relativi a tutte queste ipotesi saranno regolati dall’art. 43 c.p. se commessi dopo l’entrata in vigore dell’ultima legge e, anche eventualmente dalla più mite normativa posta dalla Balduzzi, ove commessi prima.
– Per i fatti astrattamente ricadenti sia nella disciplina della Gelli-Bianco, che sotto quella della Balduzzi, in quanto commessi anteriormente all’ultima legge, sarà più favorevole l’ultima per condotte ricadenti a pieno titolo nell’articolo 590 sexies c.p. Invece, per le condotte negligenti o imprudenti e per tutte quelle imperite ma non ricadenti nell’articolo 590 sexies, come detto all’alinea che precede, sarà più favorevole la Balduzzi, seppure per i soli casi ascrivibili alla colpa lieve.
Alla sentenza Tarabori sin qui diffusamente commentata, con le conseguenze appena sopra tratte in tema di disciplina intertemporale, si è opposto l’orientamento riassunto dalla sentenza Cass. pen. Sez. IV, 19/10/2017, n. 50078 (Cavazza).
Tale pronuncia ha affermato che il secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen., introdotto dall’articolo 6 della legge c.d. Gelli-Bianco, è norma più favorevole rispetto all’art. 3, comma 1, del decreto Balduzzi in quanto prevede una causa di non punibilità dell’esercente la professione sanitaria collocata al di fuori dell’area di operatività della colpevolezza, operante in caso di imperizia e indipendentemente dal grado della colpa.
Appare chiaro che secondo l’opzione di tale sentenza, il rispetto in generale delle linee guida e delle buone pratiche arriverebbe a rendere non punibile una condotta, anche gravemente imperita, e anche ove costituente estrinsecazione di una frazione di attività non presa specificamente in considerazione dalla linea stessa. In sostanza, sarebbe come dire al medico: “purché tu abbia inquadrato il caso nel protocollo giusto, tutto quello che succede in fase esecutiva di tale protocollo costituisce zona franca dall’occhio indagatore del magistrato”.
Come si comprende, la distanza dalla sentenza Tarabori è sostanziale.
Quella della Tarabori è stata però la linea seguita in larga parte dalle SS.UU. del 21 dicembre 2017, la cui informazione provvisoria fissa con riferimento alla più recente normativa i seguenti punti.
Il medico risponde penalmente per:
– negligenza e imprudenza, per le quali si risponde secondo l’art. 43 cp, quindi anche per colpa lieve
– imperizia, per le quali si risponde secondo l’art. 43 cp, quindi anche per colpa lieve, nei casi di:
* errore di esecuzione quando non ci sono linee guida
* errore di individuazione delle linee guida o di mancata disapplicazione per le specificità del caso concreto
– colpa solo grave da imperizia nell’esecuzione quando abbia rispettato le linee guida per tale fase, adatte al caso concreto, e tenuto conto nella valutazione della gravità della colpa, del livello di difficoltà tecnica del trattamento.
Il medico non risponde mai di imperizia per l’inquadramento e la diagnosi quando si sia attenuto alle linee guida e ne abbia verificato l’adattabilità al caso concreto.
Naturalmente sarà importante leggere le motivazioni ma, sin d’ora, è plausibile ritenere che la materia resterà fortemente controversa soprattutto per tre ragioni.
La prima risiede nel fatto che l’interpretazione abbracciata dalle Sezioni Unite va ben oltre la lettera della legge, anzi pare quasi riscriverla.
La seconda ragione è che l’efficacia dello sforzo della giurisprudenza di legittimità, volto a dettare regole interpretative per i giudice di merito, rimane fortemente condizionato dalla casistica concreta, nel senso che, nel tipo di processi in discorso, si rivela molto importante e a volte preponderante non tanto accertare quale fosse la linea guida applicabile ma, prima ancora, quale fosse la situazione fattuale che il sanitario ha avuto di fronte al momento dell’agire.
La terza è che bisognerà fare i conti con il numero e le caratteristiche, anche di dettaglio, delle guidelines che saranno rese disponibili.