Bancarotta per falso in bilancio: la difesa del sindaco in punto di dolo

  Molti sindaci di società fallite rischiano di essere incriminati per bancarotta societaria ex art. 223, 2° co. n. 1 della legge fallimentare. Quando ciò avviene, spesso l’accusa tende a ricostruire il loro atteggiamento soggettivo in termini di dolo eventuale, pur senza nominare espressamente tale istituto.

  Infatti, in mancanza di prove più specifiche in ordine alla collusione dei controllori con i controllati, la tendenza è quella di enfatizzare l’incongruità delle poste di bilancio incriminate, definendola di  macroscopica evidenza, per poi concludere che il fatto che i sindaci abbiano concorso ad approvare quel bilancio, senza avanzare rilievi, costituisce la dimostrazione della consapevolezza dei falsi e della volontà di concorrere ad occultarli.

   Tale opzione ricostruttiva può prestare il fianco a critiche e lasciare spazi efficaci alla difesa.

  Punto di partenza è il contenuto della norma in questione, il quale, con l’espressione “hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622 …”, richiama, in punto di dolo, la norma sulle false comunicazioni sociali, la quale, a sua volta, prevede che, ai fini della punibilità, debba ricorrere nell’agente “l‘intenzione di ingannare i soci o il pubblico” e “il fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto”.

   Ne discende che, anche ove realmente presenti, le macroscopiche distorsioni del documento contabile non possono essere considerate, da sole, sufficienti a fondare la prova del dolo del sindaco, oltre la soglia del ragionevole dubbio. Invero, per quanto deprecabile sotto altri aspetti, ai fini penalistici in parola non è inverosimile pensare ad un controllore che abdichi volontariamente ai suoi doveri, partecipando formalisticamente ad un consistente numero di collegi, senza svolgere, anche solo per mancanza di tempo, alcuna attenta e penetrante azione di controllo. Costui, a causa di tale opzione, ben potrebbe rischiare di non accorgersi delle false appostazioni, pur senza essere minimamente animato dalle finalistiche intenzionalità previste dalla norma richiamata.

  Secondo Cass. pen. Sez. V, 24/11/2010, n. 2784, la disposizione sulle false comunicazioni sociali, come uscita dalla novella del 2001, prevede la presenza nel soggetto agente “…del dolo generico (rappresentazione del mendacio) e di un dolo intenzionale di inganno dei destinatari, previsto per fugare ogni possibile lettura in chiave di dolo eventuale … (oltre che di un dolo specifico, rispetto ai contenuti dell’offesa, qualificata da ingiusto profitto)”.

  Questa linea di pensiero è stata di recente ripresa da Cass. pen. Sez. feriale, 27/08/2013, n. 46151, la quale, se pure con riferimento a diverso reato, ha preso di nuovo in esame le caratteristiche del dolo intenzionale e gli elementi per un valido riscontro processuale del medesimo. Per quello che può interessare il comportamento del sindaco fin qui esaminato, di notevole interesse è la proposizione decisoria secondo la quale “La prova del dolo intenzionale non può derivare esclusivamente dal comportamento non iure dell’agente ma deve essere inferita anche da altri elementi sintomatici…

   Come pure la statuizione secondo la quale l’avverbio “intenzionalmente” vale a rendere necessario che “l’evento sia la conseguenza immediatamente presa di mira dall’agente, escludendo, in tal modo, le condotte poste in essere sia con dolo diretto che con dolo eventuale”.

   Tutto ciò comporta che, sebbene non sia indispensabile la prova specifica della collusione con gli amministratori, per l’accertamento del dolo non sarà sufficiente la mera constatazione del comportamento illegittimo del sindaco, consistito nel trascurare un’attenta disamina del bilancio, da cui avrebbe potuto ricavare la conoscenza delle alterazioni. Per la condanna a titolo di dolo, sarà invece indispensabile dare prova di elementi circostanziali idonei a dare conto delle specifiche ragioni che hanno determinato l’inerzia del controllore.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.

L’imprenditore che ritarda nel chiedere il proprio fallimento risponde di bancarotta solo se versa in colpa grave

   Accade spesso, soprattutto in tempi di grave crisi economica, di incontrare imprenditori che si dibattono fra l’idea di chiedere il fallimento in proprio e quella di tentare ancora un’ ultima carta, sperando in un accordo di ristrutturazione dei debiti o in altra operazione di salvataggio .

   In simili evenienze, ciascun consulente è solito avvisare il proprio cliente del rischio bancarotta semplice.

   L’articolo 217 della legge fallimentare, infatti, punisce l’imprenditore dichiarato fallito che, pur non avendo commesso fatti fraudolenti, (…) “ ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa …

   La Corte di cassazione, sez. V penale (sentenza 25 settembre, 24 ottobre 2013, presidente Palla, relatore Zazza), interviene opportunamente a delimitare l’area del reato. Per farlo, si sofferma sull’ elemento psicologico, affermando che l’atteggiamento psichico dell’imprenditore può determinarne la condanna solo ove sia improntato alla colpa grave, mentre non è sufficiente una negligenza di minor spessore.

   Occorre dire, prima ancora di approfondire le caratteristiche della colpa, che per l’accertamento del reato è necessario stabilire il momento in cui si è obiettivamente verificato lo stato di insolvenza. Solo a partire da quella data, infatti, per l’imprenditore scatta il dovere di chiedere il fallimento, onde non aggravare il proprio dissesto.

   Si tratta di un accertamento non sempre agevole. La norma lo definisce come “l’incapacità di soddisfare con mezzi ordinari le proprie obbligazioni” (art. 5 legge fall.) ma, nella pratica, si tende a postulare la presenza di zone grigie, almeno fino a quando si sia radicata la concomitanza di più indici rivelatori quali, ad esempio, revoche di tutti i principali affidamenti bancari, mancato pagamento di somme dovute a titolo di sostituto di imposta, più decreti ingiuntivi esecutivi e più procedure esecutive.

   E, in effetti, è proprio la presenza di zone grigie che va a influenzare lo stato soggettivo di quell’imprenditore che, in buona fede o con colpa lieve, ritiene di poter ancora riuscire a recuperare quello che egli avverte come uno squilibrio finanziario non ancora irreversibile.

   La sentenza in commento afferma che la colpa inescusabile non può essere ritenuta automaticamente sussistente ogniqualvolta l’imprenditore abbia ritardato nel richiedere il fallimento. Per contro, l’intensità dell’elemento volitivo deve essere delibata caso per caso, tenendo conto della ragionevolezza delle scelte che hanno determinato l’attesa e, più ancora, delle ragionevoli prospettive che da tali scelte sembravano scaturire. Ad esempio, qual è la misura oltre la quale è grave confidare “… in un esito positivo della difficile trattativa con gli istituti di credito per il ripianamento del debito bancario …” ?

   Proprio sul mancato approfondimento di questo passaggio va ad infrangersi la tenuta della sentenza impugnata. La Corte di legittimità ne ritiene carente la motivazione in quanto il giudice di merito ha omesso di qualificare il grado della colpa, proprio in riferimento ai tentativi di accordo con le banche, che erano venuti meno solo a seguito del dissenso espresso da un istituto e “per effetto della condizione, alla quale l’accordo era subordinato, dell’adesione di tutti gli istituti interessati”.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.

Condannato il commercialista che “aiuta troppo” il proprio cliente

Un consulente, commercialista della società fallita, viene condannato per concorso nella bancarotta per distrazione, posta in essere dall’amministratore.

Si tratta della nota figura del c.d. extraneus, punito a titolo di concorso nel reato commesso dal soggetto che riveste la qualifica soggettiva propria di una determinata ipotesi criminosa, ad esempio la qualifica di amministratore di una società commerciale rispetto alla bancarotta o ad altri reati societari.

Questo il fatto: il consulente, oltre ad essere commercialista della fallita, in qualità di amministratore di altra società, partecipata dalla fallita, aveva accettato un versamento operato dalla prima e contabilizzato dalla percipiente “in conto aumento di capitale sociale”.

La sentenza di condanna riteneva importante la collocazione temporale del detto trasferimento di denaro, avvenuto in epoca molto vicina al mancato pagamento del debito che poi determinava il fallimento. Alla luce di ciò, il versamento veniva giudicato come volto a svuotare la cassa della fallita.

I giudici valorizzavano altresì il fatto che il programmato aumento di capitale della partecipata non aveva in realtà avuto luogo e, dunque, “veniva a mancare il titolo giustificativo per ritenere regolare il trasferimento di fondi …

Inoltre, erano emerse nel corso del processo, sia l’ assenza di una necessità immediata che la partecipata disponesse delle somme corrispondenti all’aumento del capitale sociale, sia la circostanza, ritenuta anch’essa rilevante, che la stessa, dalla sua costituzione al fallimento, non aveva svolto alcuna attività.

La difesa del commercialista aveva insistito nel dedurre sia l’assenza di un contributo causalmente rilevante, sia la mancanza della volontà di aiutare gli organi della fallita a distogliere l’importo dalle ragioni creditorie (depauperamento o ostacolo frapposto alla pronta fruibilità).

In particolare, il consulente, quale amministratore della percipiente, non aveva fatto altro che recepire una decisione già assunta dall’amministratore della fallita. Inoltre, la ricezione di una somma di denaro giustificata da una causale lecita, doveva considerarsi condotta non censurabile.

La condanna veniva da ultimo confermata in sede di legittimità (Cass. pen. Sez. V, 18/04/2013, n. 40332), ove si ribadiva che i giudici del merito avevano correttamente ritenuta provata la sussistenza del dolo del consulente, volto ad aiutare il proprio assistito a porre in essere una manovra distrattiva ai danni dei creditori.

Pare evidente che la ragione della condanna risiede nell’aver ritenuto fittizio l’aumento di capitale a cui era intitolato il trasferimento della somma, come pure nell’aver ritenuto che il commercialista, per la sua contiguità con l’amministratore della fallita e per il suo ruolo di amministratore della partecipata, fosse ben consapevole di tale fittizietà.

Ciò nonostante, desta una qualche perplessità l’aver ritenuto sussistente il carattere distrattivo dell’operazione e, di conseguenza, l’aver sentenziato la consapevole partecipazione del commercialista a un’operazione frodatoria.

L’eccessiva estensione del carattere di lesività per il ceto creditorio, attribuita ad operazioni formalmente irreprensibili, rischia infatti di penalizzare la normale operatività economica.

Pur considerando che l’evento del reato di bancarotta per distrazione consiste nella lesione dell’interesse dei creditori e che tale lesione viene individuata anche quale ostacolo o ritardo frapposto alla realizzazione delle loro ragioni, non può prescindersi dai seguenti rilievi.

La mera dazione di una somma ad una società partecipata, a titolo di “futuro aumento di capitale” non può ritenersi atto squilibrato sotto il profilo economico patrimoniale. Vale a dire che esso non può integrare gli estremi di un trasferimento dal carattere sicuramente depauperatorio per la fallita, la quale, invero, mantiene nel proprio patrimonio sia il valore della partecipazione sia, eventualmente, quello del credito.

In definitiva, in mancanza della dimostrazione della (consapevolmente programmata) incapienza della partecipata, che nel processo in esame sembra non aver avuto ingresso nel materiale probatorio, non si può dire che l’atto incriminato sia sicuramente fittizio, né che abbia arrecato pregiudizio ai creditori, né tantomeno che esso sia connotato da una natura ontologicamente depauperatoria.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.