Bancarotta distrattiva per incongruità del canone di locazione – Cass. Pen. Sez. V 18998 del 6 maggio 2016, relatore Lapalorcia

Un canone di locazione esorbitante rispetto a previgenti condizioni contrattuali come pure ai valori di mercato, pattuito, in qualità di conduttore, da soggetto che di lì a poco viene sottoposto a procedura concorsuale, integra un comportamento depauperatorio e dunque distrattivo.

La prova di ciò, quantomeno nei limiti del sequestro preventivo dei proventi indebitamente percepiti dal terzo locatore, risiede nel fatto che il contratto di locazione incriminato costituiva modifica di un preesistente rapporto in vigore a canone più basso, rapporto modificato, con previsione di un corrispettivo maggiore, poco tempo prima della sottoposizione del conduttore a concordato preventivo.

Alcun rilievo la Corte ha attribuito alla circostanza che il nuovo canone fosse stato “validato” dagli organi della procedura, che nulla avevano eccepito in proposito, proseguendo nella conduzione dell’immobile.

Nel confermare il sequestro, il giudice di legittimità, seguendo una linea consolidata, pur facendo riferimento alla incongruità economica dello scambio, esprime implicitamente una valutazione di mala fede nei confronti del terzo contraente. Svolge altresì un’opera di supplenza rispetto all’inerzia degli organi della procedura concorsuale.

Cassazione penale, sezione quinta, deposito 11 maggio 2016

L’amministratore di società fallita non evita la condanna per bancarotta se deduce la mancanza di dolo, affermando che egli ha rivestito un ruolo solo formale, essendosi limitato ad eseguire la volontà di un altro soggetto, quando poi i verbali delle audizioni del curatore dimostrano come detto amministratore avesse una profonda e diretta conoscenza dei fatti societari.

Dichiarazione fraudolenta e infedele: i rapporti fra il processo tributario e il processo penale

La terza sezione penale della cassazione ha depositato ieri, 12 ottobre, la sentenza 40755/2015 con la quale ha annullato una pronuncia di condanna emessa dalla Corte d’appello di Roma, in materia di reati fiscali.

All’imputato, quale legale rappresentante di una società, era stato contestato il reato di dichiarazione infedele, per avere omesso di valorizzare integralmente in dichiarazione i ricavi della vendita di alcuni appartamenti. In particolare, sia l’Ufficio che la Procura avevano ritenuto irrilevanti i costi di produzione, perché sostenuti oltre dieci anni prima della cessione.

Era però accaduto che, prima della definizione completa del processo penale, fosse passata in giudicato la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale che aveva riconosciuto fondata la deduzione dei detti costi.

La Corte di Cassazione, sconfessando l’operato della Corte di merito, ha statuito che, in una simile fattispecie, il giudice penale, qualora ritenga di doversi scostare dalla sentenza definitiva emessa in sede tributaria, deve spiegare in modo stringente questo suo opinamento.

Deve, in particolare, spiegare per quali ragioni, l’accertamento definitivo raggiunto in sede fiscale non possa spiegare i suoi effetti anche nel giudizio penale.

In definitiva, resta fermo il consolidato orientamento della giurisprudenza penalistica, secondo il quale il giudicato tributario non vincola il giudice penale e quest’ultimo può pervenire – sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario – ad un convincimento diverso.

Basti pensare, in proposito, alla diversità strutturale del rito tributario e del rito penale e, in particolare, alla notevole diversità dei possibili approfondimenti istruttori, nonché ai poteri del giudice penale di disporre qualsiasi mezzo di prova, in vista del perseguimento del fine ultimo della ricerca della verità.

Ciononostante, per discostarsi dall’accertamento concordato con il contribuente o dall’accertamento divenuto definitivo all’esito del contenzioso, il giudice penale deve motivare in modo puntuale le ragioni della divergenza di approdi, pena la nullità della sentenza.

Autore dell’articolo Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

La richiesta di archiviazione fra legittima scelta sulla fondatezza della notizia di reato e sistema di smaltimento dei rifiuti solidi giudiziari

Il Pubblico Ministero, se ritiene infondata la notizia di reato, chiede al Gip che il fascicolo venga archiviato.

Al denunciante che ne abbia fatto richiesta, viene dato avviso di questa intenzione di non perseguire il denunciato e gli viene data la possibilità, entro il termine di dieci giorni, di verificare quali indagini siano state fatte ed eventualmente di rappresentare al Gip una sua motivata contrarietà all’archiviazione, con la richiesta di ulteriori approfondimenti investigativi.

Andando a verificare le motivazioni della richiesta di archiviazione e confrontandole con i risultati delle indagini svolte, non di rado accade di apprendere che il sostituto procuratore incaricato della cura del fascicolo non ha svolto alcuna attività. In questi casi, egli ha custodito il fascicolo su uno scaffale per alcuni anni (in media un paio) e poi, giunto il suo turno, gli ha impressa la destinazione finale, attraverso una motivazione spesso succinta e stereotipata.

Quando ciò accade, si verifica un’ evidente trasgressione del principio di obbligatorietà dell’azione penale e l’articolo 408 cpp da legittimo mezzo per eliminare dal sistema le denunce totalmente infondate o prive di qualsiasi possibilità di fruttuoso sviluppo investigativo, diviene un sistema di smaltimento dell’arretrato. Un metodo assai discutibile, che viene poi utilizzato nelle statistiche giudiziarie per sostenere che i procedimenti penali sono diminuiti.

Di questa problematica, applicata all’ipotesi più specifica di due denunce fra loro connesse e probatoriamente collegate, si è occupata la Cass. pen. Sez. VI, (ud. 13-03-2014) 04-07-2014, n. 29347, presidente Agrò, relatore Leo.

Veniva impugnato per cassazione un decreto di archiviazione emesso de plano dal Gip di Lecce per inammissibilità dell’opposizione, in relazione ad un ipotizzato delitto di calunnia.

Il Pubblico Ministero aveva “sollecitato l’archiviazione – senza compiere indagini dedicate – censurando il ricorso a denunce collaterali al procedimento principale e prospettando un abuso del diritto “non tollerabile dall’ordinamento”.

   Il denunciante aveva presentato opposizione, chiedendo lo svolgimento di indagini integrative, consistenti nell’ acquisizione dei verbali del dibattimento in corso innescato dalla denuncia asseritamente calunniosa e nell’ escussione di ulteriori persone informate dei fatti di cui al procedimento principale.

   Il Gip, fra l’altro, nel decreto de plano affermava che l’accusa di calunnia non sarebbe stata ragionevolmente sostenibile prima che fosse stato definito il giudizio per il fatto principale.

   La Corte ha accolto il ricorso del denunciante e disposto la trasmissione degli atti al Gip per l’ulteriore corso.

   Queste le principali affermazioni motivazionali:

“La valutazione esplicitamente sottesa alla presa di posizione del Procuratore generale, circa l’inopportunità della duplicazione che si determina con l’instaurazione di procedimenti fondati sull’ipotizzata falsità delle accuse altrove sottoposte a verifica, è certamente comprensibile.

Essa del resto si innesta nel percorso di recenti decisioni di questa Corte, che tendono ad ostacolare il fenomeno della duplicazione di procedimenti aventi il medesimo oggetto sostanziale, spesso per finalità non tutelabili dall’ordinamento (come ad esempio quella di trasformare una persona offesa, testimone, in una persona indagata o imputata per reato connesso). La tendenza si è manifestata anche sullo specifico terreno dell’opposizione alla richiesta di archiviazione nel procedimento che, per una qualche ragione, si consideri duplicato, fino ad affermare l’inammissibilità della opposizione medesima, pur in presenza di puntuali indicazioni istruttorie sul merito della regiudicanda, quando si tratti di accertamenti la cui sede naturale viene individuata in un procedimento parallelo, per qualche ragione (in genere la cronologia) considerato “principale” (Sezione 6^, sentenza n. 45206 del 16/07/2013).

In effetti la ratio decidendi della giurisprudenza citata si fonda in buona parte proprio sulla particolare complementarietà delle notizie di reato che concorrono nei casi in questione, tale che il pubblico ministero ben può omettere, quando la denuncia per calunnia risulta strumentale e manifestamente infondata, l’iscrizione della relativa notizia di reato a carico del denunciato, e far confluire l’atto direttamente nel contesto del procedimento “principale”.

L’archiviazione senza approfondimenti istruttori, e la connessa valutazione di inammissibilità dell’opposizione che solleciti tali approfondimenti, rappresentano una sorta di “rimedio” per i casi in cui la notitia criminis del delitto di calunnia non avrebbe dovuto neanche essere iscritta, data la sua manifesta infondatezza e, comunque, la mancanza sostanziale di autonomia rispetto al tema dell’affidabilità della prova d’accusa nel procedimento parallelo sui fatti.”

Fatta questa ricognizione, la sentenza aggiunge nello specifico che

“Nella sua portata generalizzante, la soluzione è inaccoglibile.

Essa rischia di introdurre una logica di pregiudizialità che, in termini generali, è sconosciuta all’ordinamento processuale.

La giurisprudenza, in effetti, ha valorizzato il ne bis in idem ben oltre la portata dell’art. 649 c.p.p., configurando “nuove” fattispecie di improcedibilità dell’azione, ma sempre con riguardo a procedimenti che abbiano lo stesso oggetto, e non semplicemente un rapporto di connessione. Al meritevole scopo perseguito con le tesi in esame possono giovare – sempre sul piano generale – le norme in materia di riunione, o finanche comportamenti di fatto, tenuti dalle parti o dagli stessi magistrati procedenti, alla luce di una gestione ragionevole ed “economica” dei procedimenti (a cominciare, per fare un esempio, dal travaso di risultanze tra procedimenti). Certamente, e però, non può ammettersi quella vera e propria fattispecie di improcedibilità (ancor più: impromovibilità) dell’azione che costituisce il portato della tesi espressa, in termini generali, dalla Procura requirente.”

   In sostanza, la Cassazione ha ritenuto che il rimedio, in una fattispecie di indagini tuttora in corso per entrambi i procedimenti, non sia altro che quello delle indagini coordinate o dello scambio di informazioni fra fascicoli.

E ancora:

“Più radicalmente, e per chiudere, va colta l’inadeguatezza di una soluzione che preclude alla persona offesa finanche una interlocuzione sulla qualità di relazione tra il procedimento che la riguarda e quello che dovrebbe assumere il ruolo di giudizio “principale”. Se anche si ammettesse l’esistenza di una nozione di completezza “dedicata” ai casi di “processo duplicato”, la verifica del caso concreto non potrebbe che svolgersi nel contraddittorio tra le parti, come avviene in tutti i casi in cui non siano affatto “già accertate” o “palesemente ininfluenti” le prove integrative specificamente indicate dalla persona offesa.”

In conclusione, non si può escludere la procedibilità e la fruttuosità di un procedimento penale per calunnia, solo sulla base dell’assunto generalizzante secondo il quale, onde evitare una duplicazione di accertamenti, vi sarebbe una sorta di pregiudizialità del primo giudizio (quello cioè innescato dalla denuncia in ipotesi calunniosa). Per contro, la denuncia di calunnia, se corredata da elementi che ne connotino un certo livello di concretezza, mantiene la sua autonomia e, nei casi in cui entrambi i fascicoli (quello cosiddetto principale e quello relativo alla denuncia per calunnia) siano in fase di indagini preliminari, il Pubblico Ministero, anziché chiedere di archiviare apoditticamente quello per calunnia, deve attivare gli strumenti previsti dall’articolo 371 cpp.

Autore dell’articolo Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: sequestro preventivo sui beni che il terzo ha ricevuto in donazione dal debitore

   La Cassazione (sez. 3^, rel. Orilia) con sentenza depositata il 9 settembre 2015, torna sul sequestro preventivo dei beni donati, da parte di chi sia indagato per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

   Il ricorso, proposto dal donatario, figlio dell’indagato e titolare del bene sequestrato, si basava sulle seguenti deduzioni:

  • L’atto di donazione non è idoneo a pregiudicare gli interessi del fisco, in quanto facilmente revocabile e ciò dimostrava altresì la mancanza di intento fraudolento;
  • Anche dopo l’atto di donazione il patrimonio del donante rimaneva capiente rispetto alla pretesa del fisco

Questa la risposta della Cassazione:

  • La riforma del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte intervenuta nel 2010, ha trasformato tale illecito in reato di pericolo, per la cui integrazione è dunque sufficiente l’ astratta idoneità a rendere inefficace, in tutto o in parte, la procedura di riscossione coattiva
  • Lo scopo dell’incriminazione è quello di salvaguardare l’intangibilità della garanzia patrimoniale, evitando di rendere anche solo più difficile la riscossione.

   Pur sulla base di questi principi, già oggetto di numerosi precedenti conformi, rimane la necessità di valutare, nei molti casi concreti che si presentano in questa materia, l’effettiva idoneità dell’atto di spossessamento, cosa che la Cassazione difficilmente riesce a fare in quanto, fatto salvo il vizio di motivazione meramente apparente, la terza istanza cautelare può solo occuparsi di violazione di legge.

    Invero, il giudizio sulla fraudolenza dell’atto e sulla conseguente sussistenza del dolo specifico, richiesti dalla norma incriminatrice, è per lo più questione di valutazione degli elementi indiziari, salvo poter essere attaccato, in un limitato numero di casi, anche sotto il profilo dell’errata applicazione della legge.

   Per esempio, il fine di sottrarsi al pagamento delle imposte (dolo specifico) sembrerebbe non potersi ritenere sussistente in caso di donazione, atto che, di per sé non integra l’estremo di un negozio simulato o fraudolento e non pare affatto idoneo a vanificare la procedura di riscossione.

   Ciò è tanto più vero ove si consideri la recente introduzione dell’art. 2929 bis c.c., in forza del quale, in caso di donazione successiva al sorgere del credito, la procedura esecutiva può essere promossa senza alcun ostacolo.

   Più complessa e più attinente ad un’accorta ponderazione degli elementi di prova appare, invece, la valutazione dell’idoneità di un atto dispositivo a rendere anche solo più difficile l’esazione coattiva: qui tutto dipende dalle proporzioni fra beni ceduti e patrimonio residuo.

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Frodi Iva: il reato potrebbe non prescriversi più ma la Corte di Giustizia pone due condizioni

   Continua l’opera di demolizione, per via non legislativa, della prescrizione e dei suoi effetti.

   Dopo le Sezioni Unite penali del 21 luglio 2015, che hanno sancito che la confisca delle somme giacenti sui rapporti bancari intestati all’imputato rimane valida anche in caso di prescrizione, ecco la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sollecitata da un giudice italiano chiamato ad occuparsi di una frode Iva destinata a prescriversi per il lungo tempo ormai trascorso dai fatti.

   Saranno in molti a domandarsi se una simile giurisprudenza comunitaria non sia in contraddizione con l’atteggiamento da sempre tenuto dall’Europa nei confronti dell’Italia e, ancora, se essa sarà portatrice di conseguenze potenzialmente dirompenti sul nostro modello di prescrizione penale.

   Quanto al primo aspetto, invero, le note condanne collezionate dal nostro Stato convergono nel dire “dovete rendere i processi più celeri”, fine non certo raggiungibile attraverso un indefinito allungamento della prescrizione.

   Il principale argomento che sorregge l’odierna pronuncia è quello dell’ interesse finanziario: quando è in pericolo un’imposta direttamente destinata a foraggiare le casse dell’Unione, gli altri valori devono cedere il passo.

   Le sanzioni a protezione di un simile primario interesse devono essere dunque effettive e dissuasive, cosa che non accade ove i malfattori nostrani possano fondatamente contare sull’effetto estintivo della lungaggine procedimentale.

… the Member States are to take the necessary measures to ensure that conduct constituting fraud affecting the European Union’s financial interests is punishable by effective, proportionate and dissuasive criminal penalties, including, at least in cases of serious fraud, penalties involving deprivation of liberty”.

   Secondo la Corte, alla modifica “in corsa” dei termini di prescrizione non osta neppure l’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali poichè “the extension of the limitation period and its immediate application do not entail an infringement of the rights guaranteed by Article 7 of that convention, since that provision cannot be interpreted as prohibiting an extension of limitation periods where the relevant offences have never become subject to limitation

La Corte di Giustizia conclude con l’affermare che

“a national rule in relation to limitation periods for criminal offences such as that laid down by the national provisions at issue — which provided … that the interruption of criminal proceedings concerning serious fraud in relation to VAT had the effect of extending the limitation period by only a quarter of its initial duration — is liable to have an adverse effect on the fulfilment of the Member States’ obligations … if that national rule prevents the imposition of effective and dissuasive penalties in a significant number of cases of serious fraud affecting the financial interests of the European Union, or provides for longer limitation periods in respect of cases of fraud affecting the financial interests of the Member State concerned than in respect of those affecting the financial interests of the European Union, which it is for the national court to verify”.

   Sono due, perciò, le condizioni che, cumulativamente, il giudice nazionale del rinvio dovrà verificare per poter disapplicare la normativa incriminata:

  1.  … if that national rule prevents the imposition of effective and dissuasive penalties in a significant number of cases of serious fraud
  2.  … if it provides for longer limitation periods in respect of cases of fraud affecting the financial interests of the Member State concerned than in respect of those affecting the financial interests of the European Union

   Il risultato della verifica di entrambi non è affatto scontata.

   Quanto al primo, occorrerà vedere come il giudice nazionale potrà attestare che la normativa sulla prescrizione sia suscettibile di vanificare la dissuasività della comminatoria penale in un significativo numero di casi. Farà ricorso alle statistiche giudiziarie ?

   Quanto al secondo, ci si domanda se egli riuscirà a dimostrare che il diritto nazionale prevede ipotesi di reato che pregiudicano interessi finanziari dello stato, le quali hanno un termine di prescrizione più lungo di quello prescritto per la frode Iva in questione, che pregiudica l’interesse finanziario dell’Unione.

   Perchè ricorra questa seconda condizione, dovrebbe comunque trattarsi di reati equiparabili sotto il profilo della gravità.

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Le SS.UU. sulla deposizione del soggetto imputato di reato connesso o collegato non avvertito ex art. 64, comma 3, lett. c) cpp

  La deposizione resa dal soggetto imputato (o imputabile) di reato connesso o collegato, che sia dunque portatore della qualifica di teste assistito, deve essere preceduta – a pena di inutilizzabilità – dall’ avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. c) cpp, anche ove egli abbia già reso dichiarazioni sulla responsabilità dell’imputato, nel corso di un esame dibattimentale erroneamente condotto senza le garanzie e le forme previste per il suo ruolo.

  Secondo cass. SS.UU. 33583, depositata il 29 luglio 2015, il sistema scaturito dalla riforma del 2001 si impernia sulla libera scelta dell’imputato (o imputabile) di reato connesso o collegato, di riferire fatti concernenti la responsabilità di altri, scelta resa libera e consapevole dall’avviso previsto dall’art. 64, comma 3, lett. c) e dalla conseguente inutilizzabilità della deposizione, stabilita dal comma 3 bis, per il mancato avvertimento. Di conseguenza il detto avvertimento deve avere, a pena di inutilizzabilità, il più ampio campo di applicazione possibile, sempre che il giudice sia in grado – per gli atti presenti nel fascicolo o per le questioni sollevate dalle parti – di rendersi conto della sussistenza del ruolo rivestito dal dichiarante.

  Questa è la volontà espressa dall’art. 197, 1° comma, lett. b) cpp e sanzionata dall’art. 191 cpp, poiché ne va del diritto dell’imputato a non essere accusato da una persona che, a causa della violazione della norma, non poteva assumere la posizione e gli obblighi del testimone e che, grazie alla specifica scriminante prevista dall’art. 384, 2° co. cp, non assume alcuna responsabilità per le sue dichiarazioni.

  Unica eccezione è data dal soggetto che, al momento dell’interrogatorio e della deposizione, legittimamente rivestiva il ruolo di persona informata sui fatti e, solo a seguito del contenuto della deposizione, abbia assunto quella di indagato o imputato dei reati di calunnia, falsa testimonianza o favoreggiamento personale. In questo caso, la deposizione rimane ferma e valida e si tratterà di una questione di valutazione della prova.

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Contratti di appalto che nascondono somministrazione di manodopera: una bomba a orologeria per l’azienda

Sono contratti spesso mal consigliati e ancor più spesso redatti su moduli totalmente generici, così generici da risultare inefficaci al primo controllo degli ispettori del lavoro o della polizia giudiziaria.

Spesso gli imprenditori desiderosi di esternalizzazioni al risparmio, vengono indotti a preferire i prezzi prospettati da società che non risultano regolarmente abilitate alla somministrazione di prestazioni lavorative.

In questo modo incappano nella commissione di un reato, che risulta molto pericoloso per almeno due ragioni. La prima è che si tratta di un reato contravvenzionale con una pena pecuniaria estremamente alta: cinquanta euro al giorno per ogni lavoratore impiegato. Poiché molto spesso l’illecito viene accertato dopo qualche anno di vigenza del contratto e per più lavoratori contemporaneamente, basta fare i conti per capire il rischio economico. La seconda attiene al fatto che, trattandosi di reato punito con la sola ammenda, non è previsto il grado di appello e, con soli due gradi di giudizio, la prescrizione diventa molto spesso un miraggio.

A questo si aggiunga che, come confermato dalla recente Cassazione (sezione terza, n. 32697/2015, depositata il 27 luglio), i giudici si basano molto su quanto riferito dagli accertatori, utilizzando motivazioni francamente insoddisfacenti e stereotipate, le quali richiamano in modo astratto due concetti.

Il primo si bada sul mancato esercizio,  da parte del datore di lavoro formale, del potere organizzativo e disciplinare, poteri che invece vengono esercitati dell’utilizzatore, a riprova del fatto che è lui la vera parte datoriale. Il secondo sulla mancanza, in capo allo pseudo appaltatore, del rischio di impresa e, più in generale, sull’assenza della caratteristiche contrattuali tipiche di un vero appalto.

Per queste ragioni chiunque utilizzi di fatto lavoratori messi a disposizione da società non abilitate, operando sotto lo schema formale di un contratto di appalto, dovrebbe sottoporre ad attenta disamina il rapporto, per capire se sta commettendo un reato. Non si deve dimenticare infatti che vi sono casi in cui le esigenze dell’utilizzatore rientrano davvero nello schema dell’appalto genuino e che, in tali ipotesi, basterebbe una corretta formalizzazione del rapporto per evitare il rischio penale.

Corretta formalizzazione che consiste principalmente in un’ adeguata rappresentazione del contenuto e dello scopo del sinallagma.

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Il sequestro e la confisca delle somme giacenti sui rapporti bancari intestati all’imputato possono sopravvivere alla prescrizione del reato

Quando l’obiettivo della difesa è quello di ottenere la svincolo delle somme sequestrate sui conti dell’imputato, puntare sulla prescrizione rischia di essere una strategia processuale inutile.

La linea evolutiva della nostra giurisprudenza penale è, infatti, quella di erodere progressivamente la portata pratica di un istituto da sempre avversato dai giudici: la prescrizione del reato.

Questo è l’approdo della recentissima SS.UU. depositata il 21 luglio 2015, la quale aggiunge una seconda statuizione, di non minore importanza: quando ci si riferisce a denaro giacente su rapporti intestati all’imputato, si può procedere al sequestro e alla confisca in modo diretto, fino all’ammontare del prezzo o del profitto del reato, senza dover prima verificare che tali somme siano proprio quelle provenienti dal delitto. Tutto ciò è reso possibile dalla natura del denaro, bene fungibile per eccellenza.

Quanto alla prima questione, è da dire che la Corte ha potuto superare lo sbarramento della prescrizione richiamando la natura della confisca del prezzo o profitto del reato.

Si tratta della cosiddetta confisca diretta, la quale si distingue da quella per equivalente in ragione del fatto che la seconda – che si rende possibile quando, non potendosi realizzare la prima, si vanno a sequestrare beni nella disponibilità del reo, anche se non direttamente riconducibili al reato – ha natura sanzionatoria. La natura della prima, invece, è correlata alla sua funzione, che è quella di sottrarre all’imputato un bene che, per la sua stretta derivazione dal delitto, è entrato nel suo patrimonio quale effetto di un negozio con causa illecita. In questo caso, perciò, la confisca non integra una pena patrimoniale ma si limita ad annullare un’ acquisizione civilisticamente priva di causa.

Una simile ricostruzione, nel ragionamento dei giudici, permette di superare le obiezioni sollevate dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), secondo la quale, al di là delle etichette giustapposte dal singolo Stato, ciò che conta per verificare se una certa misura appartiene al genus della pena (a contenuto patrimoniale), è la sua sostanza. Se essa comporta non già l’eliminazione di un vantaggio indebito (scopo riparatorio/preventivo) ma l’ablazione di un parte di patrimonio che non sia legata da un nesso di derivazione causale col singolo fatto oggetto del giudizio (scopo punitivo/deterrente), siamo allora nel campo delle pene e, per la sua applicazione, si richiede un accertamento definitivo della responsabilità del soggetto agente secondo i canoni del giusto processo.

Quando, viceversa, la natura della confisca non sia sanzionatoria, è possibile valorizzare l’accertamento giurisdizionale svolto, anche se non culminato nel giudicato formale.

Il termine di paragone più prossimo è quello dell’azione civile di danno inserita nel processo penale: anch’essa rimane valida in caso di prescrizione del reato a patto che vi sia stata quantomeno una sentenza di condanna in primo grado.

Perché la confisca diretta possa sopravvivere alla prescrizione è dunque necessario che ci sia un accertamento completo del fatto e della responsabilità del suo autore, anche se non passato in giudicato. Tale accertamento può essere quello di un primo grado di giudizio ma anche quello, purché esaustivo, compiuto in una fase processuale diversa. In particolare, l’obbligo di immediata declaratoria di una causa di non punibilità, non assorbe quello di pronunciarsi sulla sussistenza degli estremi della confisca in parola.

In conclusione, è possibile confiscare in via definitiva il prezzo o il profitto del reato, anche se, nel corso del processo, sia intervenuta declaratoria di prescrizione. Non è invece possibile farlo se si tratta di sequestro per equivalente.

Con l’aggiunta che, sempre secondo la sentenza in commento, non si tratterà mai di confisca per equivalente, vertendosi sempre in ipotesi di confisca diretta, quando la misura colpisca somme di denaro depositate a nome dell’imputato.

E sarà confisca diretta tanto nel caso di prezzo che di profitto , e, con riferimento a quest’ultimo, sia che il profitto consista in un effettivo accrescimento patrimoniale, sia che rappresenti un risparmio di spesa.

La più importante conseguenza di questo inquadramento è che l’ablazione della somma non è subordinata alla verifica che la stessa provenga direttamente dal delitto per cui si procede, in quanto la particolare natura fungibile del bene-denaro, rende inesigibile la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato. Saranno sequestrabili e confiscabili le somme giacenti su rapporti di pertinenza del reo fino alla concorrenza dell’importo pari al prezzo o profitto di quel reato.

Il che comporta un’indubbia semplificazione, vale a dire l’enucleazione di una confisca di denaro che si comporta come quella per equivalente, quando si tratta di escludere la necessità dell’accertamento di una diretta derivazione delle somme dal reato, e come quella diretta quando si tratta di farla sopravvivere alla prescrizione.

Facile ipotizzare che ben pochi imputati lasceranno somme sui propri conti.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.​

A scheme run for an insurance fraud

1) As part of a money laundering action…

… purchasing of some savings and loans of poor value, because burdened with non-performing mortgages

2) purchasing of a small domestic insurance company, to be paid for with loans from the savings and loans

3) swapping the non-performing mortgages from the savings and loans for good bonds held by the insurance company

 

the savings and loans are now collateralized with profitable paper, making them very attractive, while the insurance company is sitting on a portfolio of non-performing mortgages

4) forming an offshore re-insurance company

5) writing off to the re-insurer the premiums owned by the insurance company, sending them straight back to the offshore trust.

6) solding for a handsome profit the savings and loans while the insurance company is doomed to go bankruptcy .