Intestazione a terzi di beni immobili, automobili o barche, per sottrarsi al pagamento dei debiti

Novità legislative per chi si spoglia dei propri beni per sfuggire ai creditori.

Con la nuova norma introdotta dal decreto legge 83/2015 sarà inutile trasferire i propri beni a terzi a titolo gratuito, in quanto il creditore potrà pignorarli come se fossero ancora intestati al debitore, senza dover più imbarcarsi in una causa per revocatoria.

Alla luce di tale novità, per chi volesse mettere i propri beni al riparo da eventi patrimoniali sfavorevoli, diviene ancor più importante concepire per tempo – dunque prima della nascita del debito – adeguati strumenti di protezione o segregazione patrimoniale.

E’ facile intuire, peraltro, che si continuerà ad assistere a fenomeni di azioni “last minute” e, in questo caso, i protagonisti avranno fatto ricorso alla vendita, vera o, più spesso, simulata.

La vendita, infatti, essendo un atto a titolo oneroso, non rientra nel range operativo della nuova norma.

La vendita fittizia però, com’è noto, presenta difficoltà e rischi che negli ultimi anni sono andati via via crescendo.

Difficoltà operative di ordine pratico, rischi di revocatoria, soprattutto se il creditore è in grado di raggiungere la prova della natura fittizia dell’atto, e rischi penali.

Questi ultimi insorgono spesso come conseguenza della necessità, prevista dalla legge, di dichiarare al notaio i mezzi finanziari attraverso i quali è stato pagato il prezzo.

Compiere atti simulati o fraudolenti sui propri beni al fine di sottrarsi all’adempimento di un’obbligazione, infatti, può costituire reato. Integra, ad esempio, questo delitto la condotta di chi simuli la vendita di un bene attraverso giri fittizi di assegni atti a dimostrare falsamente l’intervenuto pagamento del prezzo.

E la forma di reato può essere anche più grave quando, poi, con successivi passaggi artificiosi, si tenti di dissolvere ulteriormente le tracce del bene sottratto ai creditori.

autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati

La diffusione televisiva delle intercettazioni non è priva di limiti

  Le intercettazioni, è ampiamente noto, sono atti che ledono il diritto alla segretezza delle comunicazioni e alla riservatezza della vita personale.

  Tale lesione, cosa altrettanto chiara, è giustificata, in casi specifici e tassativi, dal prevalente interesse pubblico alla repressione dei reati.

  La diffusione del contenuto delle conversazioni intercettate diviene lecita dopo il deposito degli atti che accompagna la fine delle indagini o, anche prima, quando esse siano rese accessibili attraverso il deposito di un atto o di un provvedimento di cui le parti processuali possano prendere visione.

  Diffusione lecita, dunque, ma non incondizionata.

  La violazione del diritto alla segretezza del contenuto delle captazioni, resa possibile dalla prevalenza dell’interesse alla repressione dei reati, incontra, anche dopo la pubblicizzazione degli atti processuali, un limite legato alla sua originaria matrice di tutela costituzionale.

  Tale limite non può essere valicato indiscriminatamente ma solo in ragione di ulteriori interessi pubblici, che siano di volta in volta ritenuti prevalenti e che siano assistiti, nella loro concreta estrinsecazione, dai caratteri della pertinenza e continenza.

  Uno di questi interessi è quello al libero esercizio della cronaca giudiziaria e della critica dei provvedimenti giurisdizionali.

  Quando si esercita un simile diritto di cronaca e di critica, non è escluso che si possa fare ricorso al contenuto di intercettazioni, purché ciò avvenga con modalità tali da assicurare che la diffusione delle frasi intercettate sia strettamente pertinente al provvedimento giudiziario in oggetto, che sia indispensabile per condurne la critica in modo efficace, che non sia sovrabbondante rispetto allo scopo.

  A parere di chi scrive, è invece illecito quell’uso che travalichi i limiti imposti dalle predette modalità, come accade quando le intercettazioni vengono utilizzate come base per la discussione di un salotto televisivo, ai cui partecipanti il conduttore chieda di commentare le frasi pronunciate da una persona intercettata, che non sia neppure indagata, il cui contenuto abbia un rapporto di mera occasionalità con il reato e si riferisca, invece, ad aspetti personalissimi, legati alla sfera dell’introspezione e dell’emotività. In casi consimili, la violazione è aggravata dalle concrete modalità della propalazione, la quale si attui attraverso un non indispensabile ricorso all’audio originale, ed è confermata dalla conversazione intavolata dagli ospiti, la quale si concentri nella formulazione di un giudizio di ordine morale sul contegno della predetta persona non indagata.

Autore dell’articolo Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

Professionista sottoposto a giudizio disciplinare per lo stesso fatto che ha formato oggetto di imputazione in sede penale

  Le Sezioni Unite Civili della Cassazione (22/05/2014, n. 11309) ribadiscono e rafforzano la linea interpretativa secondo la quale, in pendenza del giudizio penale, il procedimento disciplinare incardinato contro il professionista per gli stessi fatti deve essere sospeso.

  Tale obbligatorio rapporto di subordinazione risulta rafforzato dall’attuale formulazione dell’art. 653 cod. proc. pen. (introdotta dall’art. 1 della legge 27 marzo 2001, n. 97), il quale prevede l’efficacia di giudicato, nel giudizio disciplinare, della sentenza penale di assoluzione “… quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso”.

  Ne consegue che, in caso di pendenza del procedimento penale, la sospensione non è solo facoltizzata (come, in via generale e cioè per i casi di pendenza di “altro giudizio” non meglio specificato, dispone ad esempio per i commercialisti, l’art. 20, primo comma, del Regolamento del Procedimento Disciplinare attualmente in vigore) ma si impone, in quanto l’esito del procedimento penale ha efficacia diretta sul procedimento disciplinare.

  La norma che gli Organi di disciplina dovranno applicare è l’art. 295 cpc, a mente del quale “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa”.

  L’effetto sospensivo è destinato ad esaurirsi con il passaggio in giudicato della sentenza penale.

  Anche in considerazione del disposto del comma primo bis del citato articolo 653 cpp, il quale stabilisce, per converso, l’efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare “…quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso”, tutto viene a dipendere dal tenore della contestazione disciplinare.

 Quando la scelta disciplinare si concretizza nel ritenere che l’illecito deontologico risieda (solo) nel fatto che l’iscritto ha commesso un reato, senza che il capo di incolpazione venga connotato da elementi ulteriori e di mera rilevanza extrapenale, si realizza una sorta di abdicazione della giustizia disciplinare, poiché come precisa la Cassazione è l’esistenza stessa del reato a costituire la sostanza dell’ illecito disciplinare.

  In questi casi, come precisa altro e precedente arresto delle Sezioni Unite (09/05/2011, n. 10071), l’azione disciplinare, che ha natura obbligatoria, non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, costituito dal passaggio in giudicato della sentenza penale.

  A ben vedere, ove si volesse condurre tale pensiero alle sue estreme conseguenze, se ne dovrebbe dedurre che, prima di tale giudicato, l’azione disciplinare dovrebbe addirittura essere archiviata, con applicazione, per ciò che riguarda ad esempio i Commercialisti, dell’art. 8 comma prima, lettera c) del  Regolamento del Procedimento Disciplinare.

  Resta solo da aggiungere che il consolidarsi dell’ interpretazione appena citata, viene ad influenzare in modo diretto le norme sui termini di prescrizione dell’azione disciplinare. Infatti, nel caso di fatto che costituisca reato, questa inizia a maturare solo dal verificarsi del presupposto e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale.

Autore Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

Cooperative edilizie: la banca mutuante non può minacciare di vendere all’asta gli immobili dei soci se non ha frazionato il mutuo e l’ipoteca

  Cass. civ. Sez. I, Sent. 21-06-2013, n. 15685, ha stabilito un principio i cui risvolti pratici non saranno molto graditi agli Istituti di credito ma che, al contrario, sembrano destinati a far tornare la serenità in molte famiglie assegnatarie di alloggi di cooperative edilizie o promissarie acquirenti di immobili da costruire.

  Il supremo collegio ha dettato il principio in parola partendo dal caso di una cooperativa edilizia che, contratto un mutuo con relativa ipoteca sugli immobili da realizzare, non aveva poi restituito i soldi alla banca. Esso è però estensibile, almeno in parte, anche per la tutela di promissari acquirenti di immobili da costruire.

  Per comprendere come, nella pratica, si possa verificare l’insoluto, è bene richiamare lo schema operativo classico delle cooperative di edificazione.

  La società, quando non usufruisce di contributi statali, realizza le costruzioni attingendo a due fonti: le anticipazioni dei soci ed il credito bancario.

  Dal punto di vista bilancistico ed in estrema sintesi, entrambe le poste rappresentano per la cooperativa dei debiti che, sotto il profilo patrimoniale, si compensano con il valore attivo rappresentato dal costo dei terreni acquistati e delle costruzioni realizzate.

  Attivo e passivo sono destinati ad elidersi al momento dell’assegnazione degli immobili ai soci. Al verificarsi di quell’evento, la posta rappresentata da quanto la cooperativa ha ricevuto dai soci in conto costruzione si azzera, visto che a fronte degli acconti versati gli assegnatari ricevono la casa a suo tempo prenotata.

  Ma anche il debito verso la banca si deve azzerare. Ciascun socio, infatti, nell’atto di prenotazione e di accettazione del piano finanziario individuale, avrà indicato se ed in quale misura egli intenda avvalersi dell’accollo di una quota mutuo. La cooperativa amministrata da un Cda virtuoso, al momento di accendere il mutuo, si sarà dunque regolata sulla base della sommatoria delle richieste di accollo, con il risultato che, all’atto dell’assegnazione, il debito verso la banca sarà integralmente accollato dagli assegnatari.

  Se questa è la fisiologia e se si tiene conto del fatto che anche eventuali sopravvenienze, se legittime, possono essere addebitate ai soci, appare spontaneo concludere che, quando una cooperativa si rende morosa verso la banca, di solito ciò accade a causa della mala gestio degli amministratori.

  La cronaca tristemente ricorrente di casi del genere, etichettati come truffe ai danni dei soci, dimostra che, spesso, soggetti abituati ad operare nel sottobosco della cooperazione edilizia, organizzano iniziative edificatorie con l’unico scopo di appropriarsi delle ingenti somme affidate alla loro gestione.

  Costoro, grazie alla predisposizione di bilanci falsi, alla carenza di controlli o alla “disattenzione” dei controllori:

  • Richiedono mutui esorbitanti rispetto alle necessità dei soci, approfittando spesso di periti e funzionari compiacenti;
  • Gonfiano la prospettazione dei costi di costruzione ed ottengono dai soci anticipazioni superiori al necessario;
  • Distraggono una buona parte dei soldi e, in particolare del mutuo bancario, con il risultato che, al momento dell’assegnazione, i soci si rendono conto che sulle loro case grava un’ipoteca ben maggiore di quella corrispondente alla quota di accollo pattuita con la cooperativa. Paradossalmente, minore è la quota di mutuo richiesta, maggiori sono le somme già versate alla cooperativa e più si rischia. Fino al caso di quei soci che, non avendo chiesto alcun mutuo, si trovano a dover pagare la casa due volte.

  Gli Istituti mutuanti, infatti, facendo leva sull’intero ammontare dell’ipoteca, originariamente unitaria, azionano il diritto di credito senza frazionare il mutuo, vale a dire in via solidale. Il risultato è che ciascun socio viene chiamato a corrispondere alla banca una quota proporzionale del prestito, che non tiene conto dell’accollo pattuito a suo tempo. Così, ad esempio, a chi non aveva pattuito alcun accollo – e perciò ha già saldato alla cooperativa l’intero corrispettivo – viene richiesta la stessa quota di chi aveva stabilito di prendere il mutuo.

  E anche quando la banca si dice formalmente disposta ad ottemperare alla legge, che impone il frazionamento (D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 39), molto spesso pretende di farlo obbligando i soci ad accollarsi non la quota da costoro a suo tempo pattuita ma, invece, quella corrispondente alla frazione aritmetica dell’intero insoluto.

  Un simile contegno, che è illegittimo sotto diversi profili e, in alcuni casi, ove accompagnato da pressioni psicologiche, potrebbe addirittura integrare gli estremi di reato, è stato oggi sconfessato dalla Suprema Corte, la quale, riprendendo il filo conduttore di una pronuncia del 2008 (Cass. 20 marzo 2008, n. 7453), ha applicato quanto previsto dall’art. 1273, u.c. cod. civ. in materia di accollo. Vale a dire che il terzo accollante (nel nostro caso il socio) “… è obbligato verso il creditore che ha aderito alla stipulazione nei limiti in cui ha assunto il debito … “. Cioè nei limiti dell’importo che il socio, nell’atto di prenotazione intercorso con la cooperativa, aveva pattuito di accollarsi, quale quota di mutuo in conto corrispettivo.

  La sentenza ha dunque stabilito che:

“L’ipoteca, dopo il frazionamento, deve garantire soltanto la quota di mutuo che il terzo si è accollato e non una quota corrispondente al valore della singola unità rispetto al valore del complesso delle unità immobiliari gravate dall’ipoteca;”

“rientra nel rischio accettato dalla banca, nell’erogare il mutuo senza procedere al frazionamento, la possibilità che una parte dell’importo mutuato non sia più assistito da una garanzia ipotecaria ed è, invece, da escludere che la garanzia possa trasferirsi sulle altre unità immobiliari in misura superiore alla quota di mutuo accollata dagli altri acquirenti.”

“Nel caso in cui il frazionamento redatto dal notaio in sostituzione della banca non rispetti i criteri dettati dalla legge ed anche ove ciò accada per le indicazioni date dal presidente del tribunale nel suo decreto, il frazionamento deve ritenersi nullo (totalmente nel caso in cui l’acquirente abbia pagato il prezzo senza accollarsi alcuna quota del mutuo; ovvero parzialmente nella parte in cui il frazionamento abbia posto a carico di una unità immobiliare una quota del mutuo superiore a quella accollatasi dal suo acquirente).”

“La nullità può essere accertata in un giudizio contenzioso nel quale non sono contraddittori necessari nè gli altri acquirenti né il mutuatario.”

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.

 

Processo giudiziario e processo mediatico: quando il giudice scontenta gli spettatori

  Il recente esito dell’udienza preliminare del caso Ragusa, ripropone e avvalora l’opportunità di una riflessione sul tema del processo penale mediatico.

  Si tratta, com’è noto, di un fenomeno che ha assunto dimensioni sempre più ingombranti negli ultimi anni, a seguito dello sviluppo di alcune trasmissioni televisive che, in nome della libertà di informazione ma, in realtà, con preponderante attenzione ai dati di audience, hanno introdotto una mutazione genetica nella cronaca giudiziaria.

  La trasformazione sta nel fatto che, nei casi di maggiore risonanza, l’attività giornalistica non si limita a raccontare gli sviluppi dell’inchiesta o del processo ma, in parte non trascurabile, dà vita ad un processo parallelo.

  Ciò avviene in modo ancor più marcato nella fase delle indagini preliminari, in cui, il procedimento giudiziario, coperto dal segreto, vive solo di indiscrezioni, mentre quello televisivo procede in modo pubblico e, naturalmente, molto più spedito.

 Con il risultato che il cittadino/spettatore, mentre ascolta il racconto (necessariamente frammentario e impreciso) degli atti dell’ inchiesta giudiziaria, vive in diretta lo svolgimento degli atti dell’inchiesta televisiva e, quando la prima inchiesta giunge ad un risultato, questo viene accettato in modo più o meno favorevole a seconda del livello di coincidenza con quello dell’inchiesta televisiva. Chi avesse dei dubbi in proposito potrà dare una rapida occhiata ai post con i quali è stata commentata in rete la decisione del Gup di Pisa, considerata scandalosa e illegittima proprio perché delegittimata dal giudizio diffuso e inappellabile di colpevolezza, che era stato emesso dall’inchiesta televisiva.

  Alcune di queste trasmissioni, al momento della nascita del nuovo corso mediatico, si occupavano di ricerca degli scomparsi. Da lì alla ricerca degli scomparsi presuntivamente oggetto di crimini violenti e, poi, alla ricerca di testimoni, il passo è stato breve.

  Questa fase è stata – e lo è tuttora, nella misura in cui a ciò ci si limiti – di notevole utilità per la capacità di apportare un ausilio ad alcune tipologie di indagini giudiziarie, purchè svolta, beninteso, di concerto con le Procure.

  La fase successiva a cui si sono spinte le trasmissioni in parola, pone invece qualche dubbio di compatibilità con lo svolgimento della funzione giudiziaria.

  Si tratta, invero, di una fase in cui, come si accennava, le redazioni televisive svolgono esse stesse le indagini preliminari.

  Lo fanno attraverso attività di ricerca della prova, ascolto delle persone informate sui fatti, interrogatorio degli indagati, esperimenti giudiziali, consulenze tecniche, attività tutte i cui risultati sono poi messi immediatamente a disposizione dell’universo mondo televisivo.

  E’ bene chiedersi quali danni tutto questo possa arrecare al sistema di amministrazione della giustizia.

  Eccone alcuni, in ordine sparso e senza presunzione di completezza o sistematicità.

   Violazione del segreto di indagine. Il segreto è funzionale alla buona riuscita delle indagini. L’indiscriminata diffusione delle notizie può arrecare pregiudizi anche irreparabili, concedendo al colpevole dei vantaggi conoscitivi che possono pregiudicare l’attività di acquisizione della prova.

  Violazione dei diritti dell’indagato. Basti pensare al fatto che costui, quand’anche solo sospettato, viene subito richiesto di rilasciare una video intervista e, a seguito di tale richiesta, scatta per lui un duplice, alternativo, trabocchetto. Se non vi si sottopone, deve subire le conseguenze di un aggravamento dei sospetti. Se vi si sottopone, rischia di patire l’analisi e il giudizio mediatico di più o meno paludati esperti di comunicazione non verbale e, cosa ancor più grave, rischia che nessuno interrompa la progressione delle domande a fronte di un’ eventuale emersione di indizi di reità. Con l’ulteriore grave conseguenza che le risposte fornite al giornalista televisivo potrebbero essere poi utilizzate come documento nel futuro processo e non invece dichiarate inutilizzabili, come quando assunte dagli organi inquirenti.

  Violazione del principio di uguaglianza. Il principio di uguaglianza, nella sua declinazione di uguaglianza di fronte alla legge, così come di fronte al procedimento e al processo, impone che il giusto processo sia uguale per tutti, senza distinzione fra chi viene attinto dal grande occhio televisivo e chi, per le ragioni più varie, riesce a rimanere coperto dal cono d’ombra. Analogo discorso vale, ovviamente, per le parti offese, le quali subiscono spesso un trattamento differenziato, a seconda che abbiano o meno il patrocinio televisivo.

  Violazione del principio di verginità conoscitiva del giudice. Il codice di procedura penale richiede che il giudicante, all’inizio del processo, sia allo scuro degli atti di indagine. Esso parte dal principio che meno il giudice conosce, meno rischia di essere pregiudicato, nel suo delicato lavoro ricostruttivo e decisorio, da elementi di convincimento che egli non abbia appreso in modo immediato e diretto dalla dinamica probatoria dibattimentale. E’ vero che, in parte, questo principio è destinato a rimanere espressione di una linea tendenziale e non sempre le contingenze consentono il suo integrale rispetto. Pur con tale consapevolezza, non è però possibile legittimare una sistematica, consapevole e piena violazione di tale valore fondante.

  Violazione del contraddittorio processuale, quale metodo di accertamento della verità giudiziaria. Per le stesse ragioni espresse al punto che precede, è necessario che l’imputato e per esso il suo difensore, non sia pregiudicato dalla preesistenza di un “esame televisivo del teste” e possa invece contare sulla corretta dinamica dell’esame e del controesame dibattimentale.

  Il catalogo di violazioni che precede lascia volutamente fuori la lesione del diritto alla riservatezza che, in non poche evenienze fra quelle narrate, risulta perpetrata in modo eccessivo e non proporzionato, in termini di bilanciamento, a quelli che sarebbero stati i fisiologici effetti di un processo giudiziario, libero dall’ingombrante sovrapposizione del processo mediatico.

  Eppure, sembra proprio che lo spettacolo debba andare avanti.

Enrico Leo. Tutti i diritti riservati

La cancellazione della società dal registro delle imprese vale per tutti meno che per il fisco

   Com’è noto, ai sensi dell’art. 2495 c.c., la cancellazione di una società dal registro delle imprese ne determina l’estinzione.
Secondo la prevalente interpretazione giurisprudenziale, si può chiedere la cancellazione di una società anche se il bilancio finale di liquidazione è in perdita ed espone un passivo non ripianato né ripianabile.
Sotto il profilo processuale, l’intervenuta estinzione per cancellazione, ove dichiarata dal procuratore della parte, comporta l’interruzione del giudizio in corso e la necessità di riassumerlo nei confronti dei soci.
A prescindere da tale interruzione e dalla conseguente riassunzione – evenienza in cui i soci hanno una posizione di mera legittimazione processuale – dopo l’estinzione di una società di capitali non residua alcuna responsabilità patrimoniale per gli ex soci, salva l’ ipotesi, descritta dal secondo comma dell’articolo 2495 cc, secondo la quale “i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi”.
Altro effetto dell’uscita dal registro delle imprese è quello previsto dall’articolo 10 della legge fallimentare, il quale prevede che il fallimento di una società estinta possa essere dichiarato solo entro un anno dalla cancellazione.
Il dlgs 21/11/2014, n. 175, all’art. 28, 4° comma, ha introdotto una disposizione che, nell’interesse del fisco, deroga in parte alla disciplina comune sin qui descritta.
Essa prevede che “Ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese.”
Occorre chiedersi se tale deroga sia legittima e quale sia la sua portata.
Con riferimento a tale secondo aspetto, occorre chiedersi, in particolare, se si tratti di una semplificazione di ordine meramente processuale, volta a non intralciare la definizione delle pretese tributarie e dei relativi contenziosi o se essa possa produrre effetti più estesi, come ad esempio quelli relativi al termine per proporre la richiesta di fallimento.
Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati