Il fallito può mentire al curatore? Obbligo di verità, facoltà di mentire e pericolo di autoincriminazione: tre possibili prospettive delle dichiarazioni rese agli organi fallimentari

Il fallito, vale a dire l’imprenditore individuale o il legale rappresentante della società fallita, viene ben presto a contatto con il curatore, il quale gli formula svariate domande. Le principali sono quelle destinate a conoscere la consistenza dell’attivo e la presenza di beni da poter utilmente liquidare, come pure quelle volte a ricostruire le cause del dissesto e quelle destinate ad eventuali chiarimenti di ordine contabile.

In questa fase, il fallito manifesta una comprensibile tendenza a intavolare un buon rapporto con il curatore e non sempre è in grado di rendersi conto della portata delle dichiarazioni che rende a verbale. Soprattutto se non accompagnato e adeguatamente assistito da un professionista con specifica formazione in materia.

Su alcune questioni il fallito non può mentire, in quanto esistono delle norme che gli impongono di dire la verità, stabilendo sanzioni penali per la trasgressione.

Parliamo innanzi tutto dell’art. 87 della legge fallimentare, il cui terzo comma dispone che, in sede di redazione dell’inventario il curatore invita il fallito a dichiarare se vi siano ulteriori attività fino a quel momento non appalesate, avvertendolo delle pene stabilite dall’articolo 220 della stessa legge, per il caso di falsa o omessa dichiarazione.

Su questo aspetto, il fallito non può dunque tenere un comportamento omissivo o reticente, poiché ne conseguirebbe un’incriminazione, a titolo doloso o anche colposo.

In realtà, nella prassi dei tribunali è molto raro incontrare un capo di imputazione di questo tipo, in quanto la mancata indicazione di beni viene sempre assorbita nel ben più grave reato di bancarotta per distrazione e anzi ne costituisce una delle più ricorrenti tecniche incriminatorie.

Ne consegue che è proprio con quest’ultima evenienza che il fallito deve fare i conti, allorchè si tratti di decidere quale debba essere il contenuto delle dichiarazioni da rendere al curatore.

L’imputazione di bancarotta per distrazione, sotto il profilo probatorio, si sviluppa attraverso quella peculiarità del diritto penale fallimentare che viene indicata come un’apparente inversione dell’onere della prova.

E’ la giurisprudenza a sottolineare che, in realtà, l’inversione dell’onere della prova è solo apparente e ciò consente che, in questi casi, vengano comminate condanne nel rispetto della presunzione costituzionale di non colpevolezza che, com’è noto, spetta all’accusa di ribaltare.

In sostanza, la mancata indicazione di un bene e la mancata dimostrazione del motivo per il quale lo stesso non è stato consegnato al curatore, sono comportamenti dai quali può essere desunta la prova della distrazione. E ciò anche in forza del fatto che l’art. 87, comma 3, del R.D. n. 267/1942 assegna al fallito un obbligo di verità circa la destinazione dei beni d’impresa. Ne consegue che, ai fini della prova della distrazione, assume rilievo la condotta infedele o sleale del fallito nel contesto dell’interpello. Non si tratta, dunque, di inversione dell’onere delle prova ma, invece, del rilievo indiziario di un contegno reticente.

Al di fuori del caso appena descritto, che si riferisce in modo specifico al dovere di dire la verità in ordine ai cespiti patrimoniali e alle conseguenze che la reticenza può comportare in ordine alla configurazione del reato di bancarotta per distrazione, esiste però un’area molto ampia di argomenti rispetto alla quale il fallito non ha un obbligo specifico di dire al curatore la verità.

Cosa accade ad esempio se un fallito dichiara falsamente, al curatore e alla polizia giudiziaria, che le scritture contabili sono andate distrutte a seguito di un allagamento ?

Nulla di penalmente rilevante.

Infatti, secondo recente giurisprudenza di legittimità, il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) sussiste solo qualora l’atto pubblico che recepisce la dichiarazione del privato, sia ontologicamente preordinato a costituire prova della verità dei fatti narrati. Vale a dire che vi deve essere una norma giuridica che ricolleghi alla dichiarazione la specifica funzione di costituire prova della verità dei fatti che ne costituiscono l’oggetto. Ciò non accade per la dichiarazione resa dal fallito, la quale, per il solo fatto di essere recepita nel verbale del curatore, non diventa prova privilegiata della veridicità degli accadimenti.

In sostanza, ciò che il fallito dichiara, anche se a lui favorevole, non gli può giovare se non nel quadro e alla stregua di qualsiasi altro elemento raccolto nel corso della ricostruzione delle cause del dissesto.

Quello che il fallito dichiara al curatore, quando a lui sfavorevole, può per contro assumere un rilievo molto negativo e ciò sia per la mancanza di qualsiasi garanzia difensiva di tipo processual-penalistico, sia per il valore confessorio che la giurisprudenza gli attribuisce, sia, ancora, per il rilievo documentale che la stessa giurisprudenza attribuisce alla relazione del curatore.

Andiamo con ordine e cerchiamo di comprendere per quale ragione il fallito deve pesare bene ogni parola detta al curatore e deve munirsi di una valida assistenza legale di tipo preventivo.

Innanzi tutto è da dire che, nonostante i tentativi reiterati delle difese e due sentenze della Consulta, la Cassazione è monolitica nel dire che le garanzie difensive del codice di procedura penale non si applicano alle dichiarazioni rese dal fallito agli organi della procedura. In sostanza, non vale in questa fase il principio secondo il quale, quando un soggetto, ascoltato dalla polizia giudiziaria come persona informata sui fatti, inizi a dire cose dalle quali emergono indizi di reaità a suo carico, occorre “interrompere il verbale” e invitarlo a munirsi di un difensore.

Le Procure, forti di questa monoliticità, stentano a iscrivere il fallito nel registro degli indagati e preferiscono, prima di farlo, che il curatore gli faccia fare una bella serie di dichiarazioni eventualmente autoincriminanti. Spesso i pubblici ministeri lo fanno addirittura impartendo al curatore specifiche direttive in ordine alle domande da porre. In sostanza utilizzano il curatore come loro “longa manus”, ben sapendo che nessun giudice sarà disposto a dire che il curatore è assimilabile alla polizia giudiziaria. E’ evidente che, in questa situazione, chi inizi a parlare col curatore senza aver prima consultato un avvocato esperto nel settore, o è un santo o è un kamikaze.

Tutto ciò, ove ve ne fosse ancora bisogno, è aggravato dal fatto che la relazione del curatore, la quale recepisce al suo interno la letterale trascrizione degli interrogatori del fallito, viene acquisita, senza indugio e nella sua integralità, al fascicolo del dibattimento penale, alla stregua di un qualsiasi altro documento. Inoltre il curatore nel corso del suo esame testimoniale viene ascoltato “de relato” su quanto a lui dichiarato dal fallito e da lui trasposto nella suddetta relazione, ex art. 33 legge fallimentare.

Fallito avvisato ….

Autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati

 

 

 

 

 

 

 

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   Studio Legale Leo si occupa di diritto penale dell’economia e, in particolare, di bancarotta, reati tributari, reati societari, con riferimento ai profili di responsabilità di imprenditori, amministratori, sindaci e revisori.

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Studio Legale Leo

Riciclaggio e autoriciclaggio

  1. Definizioni

Viene incriminato per riciclaggio il soggetto che si occupa di nascondere la provenienza illecita del denaro o degli altri beni ricavati da un reato, alla cui commissione non ha partecipato, creando, attraverso una trasformazione e  un reimpiego di tali beni, l’apparenza che la loro origine sia lecita.

Viene incriminato per autoriciclaggio il soggetto che, dopo aver commesso un reato, si occupa di nascondere la provenienza illecita del denaro o degli altri beni ricavati da tale illecito, creando, attraverso una trasformazione e  un reimpiego di tali beni, l’apparenza che la loro origine sia lecita.

  1. Le caratteristiche dell’autoriciclaggio

L’autoriciclaggio è punito solo se la trasformazione e  il reimpiego dei beni ricavati dal reato, vengono attuati mediante inserimento degli stessi in attività di tipo economico, finanziario, imprenditoriale o speculativo. Non si è puniti, dunque, se si utilizzano i detti proventi per attività di mera fruizione o godimento personale.

In sostanza, non è punito chi si limita ad utilizzare, spendere, consumare o trasformare in beni di uso personale ciò che ha ricavato dalla commissione del reato, ma solo chi, in modo da nasconderne la provenienza, immette tale ricavo illecito in un ciclo economico/produttivo.

La differenza che si profila è, dunque, fra consumo personale e reinvestimento produttivo.

  1. L’accertamento del riciclaggio

L’attività di riciclaggio, per essere punibile, deve consistere in un’azione che sia concretamente idonea a rendere opaca la provenienza illecita del denaro o degli altri beni.

Altrimenti l’attività dovrà essere considerata innocua, perché evidentemente commessa in buona fede.

E’ proprio intorno alla verifica di questo requisito che ruotano le principali argomentazioni difensive di chi sia indagato per tale reato. La disamina della casistica ragionevolmente ipotizzabile assume in proposito una grande importanza.

In tema di verifica della buona fede, che, in qualche modo, costituisce il risvolto soggettivo della carenza di idoneità dell’azione, è bene considerare che si è puniti per riciclaggio anche a titolo di dolo eventuale, vale a dire quando, pur non essendovi prova di un’aperta intenzione di commettere il fatto, risulta che il soggetto non abbia desistito dall’attività, pur in presenza di chiari segnali in base ai quali una persona normale avrebbe seriamente sospettato  della provenienza illecita dei beni.

  1. Autoriciclaggio e reati fiscali

Uno dei principali banchi di prova dell’autoriciclaggio sarà certamente costituito dal reimpiego del ricavato di reati fiscali, in quanto non è infrequente che quanto sottratto al fisco sia poi reimpiegato nella stessa azienda.

E’ da ritenere pertanto che si tratti di uno strumento volto a perseguire con maggiore efficacia l’evasione penalmente rilevante, attraverso una ricostruzione dell’origine delle somme impiegate nel processo produttivo.

autore Enrico Leo – tutti i diritti riservati

Cassazione penale, sezione quinta, deposito 11 maggio 2016

L’amministratore di società fallita non evita la condanna per bancarotta se deduce la mancanza di dolo, affermando che egli ha rivestito un ruolo solo formale, essendosi limitato ad eseguire la volontà di un altro soggetto, quando poi i verbali delle audizioni del curatore dimostrano come detto amministratore avesse una profonda e diretta conoscenza dei fatti societari.

Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: sequestro preventivo sui beni che il terzo ha ricevuto in donazione dal debitore

   La Cassazione (sez. 3^, rel. Orilia) con sentenza depositata il 9 settembre 2015, torna sul sequestro preventivo dei beni donati, da parte di chi sia indagato per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

   Il ricorso, proposto dal donatario, figlio dell’indagato e titolare del bene sequestrato, si basava sulle seguenti deduzioni:

  • L’atto di donazione non è idoneo a pregiudicare gli interessi del fisco, in quanto facilmente revocabile e ciò dimostrava altresì la mancanza di intento fraudolento;
  • Anche dopo l’atto di donazione il patrimonio del donante rimaneva capiente rispetto alla pretesa del fisco

Questa la risposta della Cassazione:

  • La riforma del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte intervenuta nel 2010, ha trasformato tale illecito in reato di pericolo, per la cui integrazione è dunque sufficiente l’ astratta idoneità a rendere inefficace, in tutto o in parte, la procedura di riscossione coattiva
  • Lo scopo dell’incriminazione è quello di salvaguardare l’intangibilità della garanzia patrimoniale, evitando di rendere anche solo più difficile la riscossione.

   Pur sulla base di questi principi, già oggetto di numerosi precedenti conformi, rimane la necessità di valutare, nei molti casi concreti che si presentano in questa materia, l’effettiva idoneità dell’atto di spossessamento, cosa che la Cassazione difficilmente riesce a fare in quanto, fatto salvo il vizio di motivazione meramente apparente, la terza istanza cautelare può solo occuparsi di violazione di legge.

    Invero, il giudizio sulla fraudolenza dell’atto e sulla conseguente sussistenza del dolo specifico, richiesti dalla norma incriminatrice, è per lo più questione di valutazione degli elementi indiziari, salvo poter essere attaccato, in un limitato numero di casi, anche sotto il profilo dell’errata applicazione della legge.

   Per esempio, il fine di sottrarsi al pagamento delle imposte (dolo specifico) sembrerebbe non potersi ritenere sussistente in caso di donazione, atto che, di per sé non integra l’estremo di un negozio simulato o fraudolento e non pare affatto idoneo a vanificare la procedura di riscossione.

   Ciò è tanto più vero ove si consideri la recente introduzione dell’art. 2929 bis c.c., in forza del quale, in caso di donazione successiva al sorgere del credito, la procedura esecutiva può essere promossa senza alcun ostacolo.

   Più complessa e più attinente ad un’accorta ponderazione degli elementi di prova appare, invece, la valutazione dell’idoneità di un atto dispositivo a rendere anche solo più difficile l’esazione coattiva: qui tutto dipende dalle proporzioni fra beni ceduti e patrimonio residuo.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.​

Frodi Iva: il reato potrebbe non prescriversi più ma la Corte di Giustizia pone due condizioni

   Continua l’opera di demolizione, per via non legislativa, della prescrizione e dei suoi effetti.

   Dopo le Sezioni Unite penali del 21 luglio 2015, che hanno sancito che la confisca delle somme giacenti sui rapporti bancari intestati all’imputato rimane valida anche in caso di prescrizione, ecco la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sollecitata da un giudice italiano chiamato ad occuparsi di una frode Iva destinata a prescriversi per il lungo tempo ormai trascorso dai fatti.

   Saranno in molti a domandarsi se una simile giurisprudenza comunitaria non sia in contraddizione con l’atteggiamento da sempre tenuto dall’Europa nei confronti dell’Italia e, ancora, se essa sarà portatrice di conseguenze potenzialmente dirompenti sul nostro modello di prescrizione penale.

   Quanto al primo aspetto, invero, le note condanne collezionate dal nostro Stato convergono nel dire “dovete rendere i processi più celeri”, fine non certo raggiungibile attraverso un indefinito allungamento della prescrizione.

   Il principale argomento che sorregge l’odierna pronuncia è quello dell’ interesse finanziario: quando è in pericolo un’imposta direttamente destinata a foraggiare le casse dell’Unione, gli altri valori devono cedere il passo.

   Le sanzioni a protezione di un simile primario interesse devono essere dunque effettive e dissuasive, cosa che non accade ove i malfattori nostrani possano fondatamente contare sull’effetto estintivo della lungaggine procedimentale.

… the Member States are to take the necessary measures to ensure that conduct constituting fraud affecting the European Union’s financial interests is punishable by effective, proportionate and dissuasive criminal penalties, including, at least in cases of serious fraud, penalties involving deprivation of liberty”.

   Secondo la Corte, alla modifica “in corsa” dei termini di prescrizione non osta neppure l’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali poichè “the extension of the limitation period and its immediate application do not entail an infringement of the rights guaranteed by Article 7 of that convention, since that provision cannot be interpreted as prohibiting an extension of limitation periods where the relevant offences have never become subject to limitation

La Corte di Giustizia conclude con l’affermare che

“a national rule in relation to limitation periods for criminal offences such as that laid down by the national provisions at issue — which provided … that the interruption of criminal proceedings concerning serious fraud in relation to VAT had the effect of extending the limitation period by only a quarter of its initial duration — is liable to have an adverse effect on the fulfilment of the Member States’ obligations … if that national rule prevents the imposition of effective and dissuasive penalties in a significant number of cases of serious fraud affecting the financial interests of the European Union, or provides for longer limitation periods in respect of cases of fraud affecting the financial interests of the Member State concerned than in respect of those affecting the financial interests of the European Union, which it is for the national court to verify”.

   Sono due, perciò, le condizioni che, cumulativamente, il giudice nazionale del rinvio dovrà verificare per poter disapplicare la normativa incriminata:

  1.  … if that national rule prevents the imposition of effective and dissuasive penalties in a significant number of cases of serious fraud
  2.  … if it provides for longer limitation periods in respect of cases of fraud affecting the financial interests of the Member State concerned than in respect of those affecting the financial interests of the European Union

   Il risultato della verifica di entrambi non è affatto scontata.

   Quanto al primo, occorrerà vedere come il giudice nazionale potrà attestare che la normativa sulla prescrizione sia suscettibile di vanificare la dissuasività della comminatoria penale in un significativo numero di casi. Farà ricorso alle statistiche giudiziarie ?

   Quanto al secondo, ci si domanda se egli riuscirà a dimostrare che il diritto nazionale prevede ipotesi di reato che pregiudicano interessi finanziari dello stato, le quali hanno un termine di prescrizione più lungo di quello prescritto per la frode Iva in questione, che pregiudica l’interesse finanziario dell’Unione.

   Perchè ricorra questa seconda condizione, dovrebbe comunque trattarsi di reati equiparabili sotto il profilo della gravità.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.​

Contratti di appalto che nascondono somministrazione di manodopera: una bomba a orologeria per l’azienda

Sono contratti spesso mal consigliati e ancor più spesso redatti su moduli totalmente generici, così generici da risultare inefficaci al primo controllo degli ispettori del lavoro o della polizia giudiziaria.

Spesso gli imprenditori desiderosi di esternalizzazioni al risparmio, vengono indotti a preferire i prezzi prospettati da società che non risultano regolarmente abilitate alla somministrazione di prestazioni lavorative.

In questo modo incappano nella commissione di un reato, che risulta molto pericoloso per almeno due ragioni. La prima è che si tratta di un reato contravvenzionale con una pena pecuniaria estremamente alta: cinquanta euro al giorno per ogni lavoratore impiegato. Poiché molto spesso l’illecito viene accertato dopo qualche anno di vigenza del contratto e per più lavoratori contemporaneamente, basta fare i conti per capire il rischio economico. La seconda attiene al fatto che, trattandosi di reato punito con la sola ammenda, non è previsto il grado di appello e, con soli due gradi di giudizio, la prescrizione diventa molto spesso un miraggio.

A questo si aggiunga che, come confermato dalla recente Cassazione (sezione terza, n. 32697/2015, depositata il 27 luglio), i giudici si basano molto su quanto riferito dagli accertatori, utilizzando motivazioni francamente insoddisfacenti e stereotipate, le quali richiamano in modo astratto due concetti.

Il primo si bada sul mancato esercizio,  da parte del datore di lavoro formale, del potere organizzativo e disciplinare, poteri che invece vengono esercitati dell’utilizzatore, a riprova del fatto che è lui la vera parte datoriale. Il secondo sulla mancanza, in capo allo pseudo appaltatore, del rischio di impresa e, più in generale, sull’assenza della caratteristiche contrattuali tipiche di un vero appalto.

Per queste ragioni chiunque utilizzi di fatto lavoratori messi a disposizione da società non abilitate, operando sotto lo schema formale di un contratto di appalto, dovrebbe sottoporre ad attenta disamina il rapporto, per capire se sta commettendo un reato. Non si deve dimenticare infatti che vi sono casi in cui le esigenze dell’utilizzatore rientrano davvero nello schema dell’appalto genuino e che, in tali ipotesi, basterebbe una corretta formalizzazione del rapporto per evitare il rischio penale.

Corretta formalizzazione che consiste principalmente in un’ adeguata rappresentazione del contenuto e dello scopo del sinallagma.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.​

Il sequestro e la confisca delle somme giacenti sui rapporti bancari intestati all’imputato possono sopravvivere alla prescrizione del reato

Quando l’obiettivo della difesa è quello di ottenere la svincolo delle somme sequestrate sui conti dell’imputato, puntare sulla prescrizione rischia di essere una strategia processuale inutile.

La linea evolutiva della nostra giurisprudenza penale è, infatti, quella di erodere progressivamente la portata pratica di un istituto da sempre avversato dai giudici: la prescrizione del reato.

Questo è l’approdo della recentissima SS.UU. depositata il 21 luglio 2015, la quale aggiunge una seconda statuizione, di non minore importanza: quando ci si riferisce a denaro giacente su rapporti intestati all’imputato, si può procedere al sequestro e alla confisca in modo diretto, fino all’ammontare del prezzo o del profitto del reato, senza dover prima verificare che tali somme siano proprio quelle provenienti dal delitto. Tutto ciò è reso possibile dalla natura del denaro, bene fungibile per eccellenza.

Quanto alla prima questione, è da dire che la Corte ha potuto superare lo sbarramento della prescrizione richiamando la natura della confisca del prezzo o profitto del reato.

Si tratta della cosiddetta confisca diretta, la quale si distingue da quella per equivalente in ragione del fatto che la seconda – che si rende possibile quando, non potendosi realizzare la prima, si vanno a sequestrare beni nella disponibilità del reo, anche se non direttamente riconducibili al reato – ha natura sanzionatoria. La natura della prima, invece, è correlata alla sua funzione, che è quella di sottrarre all’imputato un bene che, per la sua stretta derivazione dal delitto, è entrato nel suo patrimonio quale effetto di un negozio con causa illecita. In questo caso, perciò, la confisca non integra una pena patrimoniale ma si limita ad annullare un’ acquisizione civilisticamente priva di causa.

Una simile ricostruzione, nel ragionamento dei giudici, permette di superare le obiezioni sollevate dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), secondo la quale, al di là delle etichette giustapposte dal singolo Stato, ciò che conta per verificare se una certa misura appartiene al genus della pena (a contenuto patrimoniale), è la sua sostanza. Se essa comporta non già l’eliminazione di un vantaggio indebito (scopo riparatorio/preventivo) ma l’ablazione di un parte di patrimonio che non sia legata da un nesso di derivazione causale col singolo fatto oggetto del giudizio (scopo punitivo/deterrente), siamo allora nel campo delle pene e, per la sua applicazione, si richiede un accertamento definitivo della responsabilità del soggetto agente secondo i canoni del giusto processo.

Quando, viceversa, la natura della confisca non sia sanzionatoria, è possibile valorizzare l’accertamento giurisdizionale svolto, anche se non culminato nel giudicato formale.

Il termine di paragone più prossimo è quello dell’azione civile di danno inserita nel processo penale: anch’essa rimane valida in caso di prescrizione del reato a patto che vi sia stata quantomeno una sentenza di condanna in primo grado.

Perché la confisca diretta possa sopravvivere alla prescrizione è dunque necessario che ci sia un accertamento completo del fatto e della responsabilità del suo autore, anche se non passato in giudicato. Tale accertamento può essere quello di un primo grado di giudizio ma anche quello, purché esaustivo, compiuto in una fase processuale diversa. In particolare, l’obbligo di immediata declaratoria di una causa di non punibilità, non assorbe quello di pronunciarsi sulla sussistenza degli estremi della confisca in parola.

In conclusione, è possibile confiscare in via definitiva il prezzo o il profitto del reato, anche se, nel corso del processo, sia intervenuta declaratoria di prescrizione. Non è invece possibile farlo se si tratta di sequestro per equivalente.

Con l’aggiunta che, sempre secondo la sentenza in commento, non si tratterà mai di confisca per equivalente, vertendosi sempre in ipotesi di confisca diretta, quando la misura colpisca somme di denaro depositate a nome dell’imputato.

E sarà confisca diretta tanto nel caso di prezzo che di profitto , e, con riferimento a quest’ultimo, sia che il profitto consista in un effettivo accrescimento patrimoniale, sia che rappresenti un risparmio di spesa.

La più importante conseguenza di questo inquadramento è che l’ablazione della somma non è subordinata alla verifica che la stessa provenga direttamente dal delitto per cui si procede, in quanto la particolare natura fungibile del bene-denaro, rende inesigibile la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato. Saranno sequestrabili e confiscabili le somme giacenti su rapporti di pertinenza del reo fino alla concorrenza dell’importo pari al prezzo o profitto di quel reato.

Il che comporta un’indubbia semplificazione, vale a dire l’enucleazione di una confisca di denaro che si comporta come quella per equivalente, quando si tratta di escludere la necessità dell’accertamento di una diretta derivazione delle somme dal reato, e come quella diretta quando si tratta di farla sopravvivere alla prescrizione.

Facile ipotizzare che ben pochi imputati lasceranno somme sui propri conti.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.​

Intestazione a terzi di beni immobili, automobili o barche, per sottrarsi al pagamento dei debiti

Novità legislative per chi si spoglia dei propri beni per sfuggire ai creditori.

Con la nuova norma introdotta dal decreto legge 83/2015 sarà inutile trasferire i propri beni a terzi a titolo gratuito, in quanto il creditore potrà pignorarli come se fossero ancora intestati al debitore, senza dover più imbarcarsi in una causa per revocatoria.

Alla luce di tale novità, per chi volesse mettere i propri beni al riparo da eventi patrimoniali sfavorevoli, diviene ancor più importante concepire per tempo – dunque prima della nascita del debito – adeguati strumenti di protezione o segregazione patrimoniale.

E’ facile intuire, peraltro, che si continuerà ad assistere a fenomeni di azioni “last minute” e, in questo caso, i protagonisti avranno fatto ricorso alla vendita, vera o, più spesso, simulata.

La vendita, infatti, essendo un atto a titolo oneroso, non rientra nel range operativo della nuova norma.

La vendita fittizia però, com’è noto, presenta difficoltà e rischi che negli ultimi anni sono andati via via crescendo.

Difficoltà operative di ordine pratico, rischi di revocatoria, soprattutto se il creditore è in grado di raggiungere la prova della natura fittizia dell’atto, e rischi penali.

Questi ultimi insorgono spesso come conseguenza della necessità, prevista dalla legge, di dichiarare al notaio i mezzi finanziari attraverso i quali è stato pagato il prezzo.

Compiere atti simulati o fraudolenti sui propri beni al fine di sottrarsi all’adempimento di un’obbligazione, infatti, può costituire reato. Integra, ad esempio, questo delitto la condotta di chi simuli la vendita di un bene attraverso giri fittizi di assegni atti a dimostrare falsamente l’intervenuto pagamento del prezzo.

E la forma di reato può essere anche più grave quando, poi, con successivi passaggi artificiosi, si tenti di dissolvere ulteriormente le tracce del bene sottratto ai creditori.

autore dell’articolo Enrico Leo – tutti i diritti riservati

L’imprenditore che ritarda nel chiedere il proprio fallimento risponde di bancarotta solo se versa in colpa grave

   Accade spesso, soprattutto in tempi di grave crisi economica, di incontrare imprenditori che si dibattono fra l’idea di chiedere il fallimento in proprio e quella di tentare ancora un’ ultima carta, sperando in un accordo di ristrutturazione dei debiti o in altra operazione di salvataggio .

   In simili evenienze, ciascun consulente è solito avvisare il proprio cliente del rischio bancarotta semplice.

   L’articolo 217 della legge fallimentare, infatti, punisce l’imprenditore dichiarato fallito che, pur non avendo commesso fatti fraudolenti, (…) “ ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa …

   La Corte di cassazione, sez. V penale (sentenza 25 settembre, 24 ottobre 2013, presidente Palla, relatore Zazza), interviene opportunamente a delimitare l’area del reato. Per farlo, si sofferma sull’ elemento psicologico, affermando che l’atteggiamento psichico dell’imprenditore può determinarne la condanna solo ove sia improntato alla colpa grave, mentre non è sufficiente una negligenza di minor spessore.

   Occorre dire, prima ancora di approfondire le caratteristiche della colpa, che per l’accertamento del reato è necessario stabilire il momento in cui si è obiettivamente verificato lo stato di insolvenza. Solo a partire da quella data, infatti, per l’imprenditore scatta il dovere di chiedere il fallimento, onde non aggravare il proprio dissesto.

   Si tratta di un accertamento non sempre agevole. La norma lo definisce come “l’incapacità di soddisfare con mezzi ordinari le proprie obbligazioni” (art. 5 legge fall.) ma, nella pratica, si tende a postulare la presenza di zone grigie, almeno fino a quando si sia radicata la concomitanza di più indici rivelatori quali, ad esempio, revoche di tutti i principali affidamenti bancari, mancato pagamento di somme dovute a titolo di sostituto di imposta, più decreti ingiuntivi esecutivi e più procedure esecutive.

   E, in effetti, è proprio la presenza di zone grigie che va a influenzare lo stato soggettivo di quell’imprenditore che, in buona fede o con colpa lieve, ritiene di poter ancora riuscire a recuperare quello che egli avverte come uno squilibrio finanziario non ancora irreversibile.

   La sentenza in commento afferma che la colpa inescusabile non può essere ritenuta automaticamente sussistente ogniqualvolta l’imprenditore abbia ritardato nel richiedere il fallimento. Per contro, l’intensità dell’elemento volitivo deve essere delibata caso per caso, tenendo conto della ragionevolezza delle scelte che hanno determinato l’attesa e, più ancora, delle ragionevoli prospettive che da tali scelte sembravano scaturire. Ad esempio, qual è la misura oltre la quale è grave confidare “… in un esito positivo della difficile trattativa con gli istituti di credito per il ripianamento del debito bancario …” ?

   Proprio sul mancato approfondimento di questo passaggio va ad infrangersi la tenuta della sentenza impugnata. La Corte di legittimità ne ritiene carente la motivazione in quanto il giudice di merito ha omesso di qualificare il grado della colpa, proprio in riferimento ai tentativi di accordo con le banche, che erano venuti meno solo a seguito del dissenso espresso da un istituto e “per effetto della condizione, alla quale l’accordo era subordinato, dell’adesione di tutti gli istituti interessati”.

Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.