Accade spesso, soprattutto in tempi di grave crisi economica, di incontrare imprenditori che si dibattono fra l’idea di chiedere il fallimento in proprio e quella di tentare ancora un’ ultima carta, sperando in un accordo di ristrutturazione dei debiti o in altra operazione di salvataggio .
In simili evenienze, ciascun consulente è solito avvisare il proprio cliente del rischio bancarotta semplice.
L’articolo 217 della legge fallimentare, infatti, punisce l’imprenditore dichiarato fallito che, pur non avendo commesso fatti fraudolenti, (…) “ ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa …”
La Corte di cassazione, sez. V penale (sentenza 25 settembre, 24 ottobre 2013, presidente Palla, relatore Zazza), interviene opportunamente a delimitare l’area del reato. Per farlo, si sofferma sull’ elemento psicologico, affermando che l’atteggiamento psichico dell’imprenditore può determinarne la condanna solo ove sia improntato alla colpa grave, mentre non è sufficiente una negligenza di minor spessore.
Occorre dire, prima ancora di approfondire le caratteristiche della colpa, che per l’accertamento del reato è necessario stabilire il momento in cui si è obiettivamente verificato lo stato di insolvenza. Solo a partire da quella data, infatti, per l’imprenditore scatta il dovere di chiedere il fallimento, onde non aggravare il proprio dissesto.
Si tratta di un accertamento non sempre agevole. La norma lo definisce come “l’incapacità di soddisfare con mezzi ordinari le proprie obbligazioni” (art. 5 legge fall.) ma, nella pratica, si tende a postulare la presenza di zone grigie, almeno fino a quando si sia radicata la concomitanza di più indici rivelatori quali, ad esempio, revoche di tutti i principali affidamenti bancari, mancato pagamento di somme dovute a titolo di sostituto di imposta, più decreti ingiuntivi esecutivi e più procedure esecutive.
E, in effetti, è proprio la presenza di zone grigie che va a influenzare lo stato soggettivo di quell’imprenditore che, in buona fede o con colpa lieve, ritiene di poter ancora riuscire a recuperare quello che egli avverte come uno squilibrio finanziario non ancora irreversibile.
La sentenza in commento afferma che la colpa inescusabile non può essere ritenuta automaticamente sussistente ogniqualvolta l’imprenditore abbia ritardato nel richiedere il fallimento. Per contro, l’intensità dell’elemento volitivo deve essere delibata caso per caso, tenendo conto della ragionevolezza delle scelte che hanno determinato l’attesa e, più ancora, delle ragionevoli prospettive che da tali scelte sembravano scaturire. Ad esempio, qual è la misura oltre la quale è grave confidare “… in un esito positivo della difficile trattativa con gli istituti di credito per il ripianamento del debito bancario …” ?
Proprio sul mancato approfondimento di questo passaggio va ad infrangersi la tenuta della sentenza impugnata. La Corte di legittimità ne ritiene carente la motivazione in quanto il giudice di merito ha omesso di qualificare il grado della colpa, proprio in riferimento ai tentativi di accordo con le banche, che erano venuti meno solo a seguito del dissenso espresso da un istituto e “per effetto della condizione, alla quale l’accordo era subordinato, dell’adesione di tutti gli istituti interessati”.
Autore dell’articolo: Enrico Leo. Tutti i diritti riservati.