Processo giudiziario e processo mediatico: quando il giudice scontenta gli spettatori

  Il recente esito dell’udienza preliminare del caso Ragusa, ripropone e avvalora l’opportunità di una riflessione sul tema del processo penale mediatico.

  Si tratta, com’è noto, di un fenomeno che ha assunto dimensioni sempre più ingombranti negli ultimi anni, a seguito dello sviluppo di alcune trasmissioni televisive che, in nome della libertà di informazione ma, in realtà, con preponderante attenzione ai dati di audience, hanno introdotto una mutazione genetica nella cronaca giudiziaria.

  La trasformazione sta nel fatto che, nei casi di maggiore risonanza, l’attività giornalistica non si limita a raccontare gli sviluppi dell’inchiesta o del processo ma, in parte non trascurabile, dà vita ad un processo parallelo.

  Ciò avviene in modo ancor più marcato nella fase delle indagini preliminari, in cui, il procedimento giudiziario, coperto dal segreto, vive solo di indiscrezioni, mentre quello televisivo procede in modo pubblico e, naturalmente, molto più spedito.

 Con il risultato che il cittadino/spettatore, mentre ascolta il racconto (necessariamente frammentario e impreciso) degli atti dell’ inchiesta giudiziaria, vive in diretta lo svolgimento degli atti dell’inchiesta televisiva e, quando la prima inchiesta giunge ad un risultato, questo viene accettato in modo più o meno favorevole a seconda del livello di coincidenza con quello dell’inchiesta televisiva. Chi avesse dei dubbi in proposito potrà dare una rapida occhiata ai post con i quali è stata commentata in rete la decisione del Gup di Pisa, considerata scandalosa e illegittima proprio perché delegittimata dal giudizio diffuso e inappellabile di colpevolezza, che era stato emesso dall’inchiesta televisiva.

  Alcune di queste trasmissioni, al momento della nascita del nuovo corso mediatico, si occupavano di ricerca degli scomparsi. Da lì alla ricerca degli scomparsi presuntivamente oggetto di crimini violenti e, poi, alla ricerca di testimoni, il passo è stato breve.

  Questa fase è stata – e lo è tuttora, nella misura in cui a ciò ci si limiti – di notevole utilità per la capacità di apportare un ausilio ad alcune tipologie di indagini giudiziarie, purchè svolta, beninteso, di concerto con le Procure.

  La fase successiva a cui si sono spinte le trasmissioni in parola, pone invece qualche dubbio di compatibilità con lo svolgimento della funzione giudiziaria.

  Si tratta, invero, di una fase in cui, come si accennava, le redazioni televisive svolgono esse stesse le indagini preliminari.

  Lo fanno attraverso attività di ricerca della prova, ascolto delle persone informate sui fatti, interrogatorio degli indagati, esperimenti giudiziali, consulenze tecniche, attività tutte i cui risultati sono poi messi immediatamente a disposizione dell’universo mondo televisivo.

  E’ bene chiedersi quali danni tutto questo possa arrecare al sistema di amministrazione della giustizia.

  Eccone alcuni, in ordine sparso e senza presunzione di completezza o sistematicità.

   Violazione del segreto di indagine. Il segreto è funzionale alla buona riuscita delle indagini. L’indiscriminata diffusione delle notizie può arrecare pregiudizi anche irreparabili, concedendo al colpevole dei vantaggi conoscitivi che possono pregiudicare l’attività di acquisizione della prova.

  Violazione dei diritti dell’indagato. Basti pensare al fatto che costui, quand’anche solo sospettato, viene subito richiesto di rilasciare una video intervista e, a seguito di tale richiesta, scatta per lui un duplice, alternativo, trabocchetto. Se non vi si sottopone, deve subire le conseguenze di un aggravamento dei sospetti. Se vi si sottopone, rischia di patire l’analisi e il giudizio mediatico di più o meno paludati esperti di comunicazione non verbale e, cosa ancor più grave, rischia che nessuno interrompa la progressione delle domande a fronte di un’ eventuale emersione di indizi di reità. Con l’ulteriore grave conseguenza che le risposte fornite al giornalista televisivo potrebbero essere poi utilizzate come documento nel futuro processo e non invece dichiarate inutilizzabili, come quando assunte dagli organi inquirenti.

  Violazione del principio di uguaglianza. Il principio di uguaglianza, nella sua declinazione di uguaglianza di fronte alla legge, così come di fronte al procedimento e al processo, impone che il giusto processo sia uguale per tutti, senza distinzione fra chi viene attinto dal grande occhio televisivo e chi, per le ragioni più varie, riesce a rimanere coperto dal cono d’ombra. Analogo discorso vale, ovviamente, per le parti offese, le quali subiscono spesso un trattamento differenziato, a seconda che abbiano o meno il patrocinio televisivo.

  Violazione del principio di verginità conoscitiva del giudice. Il codice di procedura penale richiede che il giudicante, all’inizio del processo, sia allo scuro degli atti di indagine. Esso parte dal principio che meno il giudice conosce, meno rischia di essere pregiudicato, nel suo delicato lavoro ricostruttivo e decisorio, da elementi di convincimento che egli non abbia appreso in modo immediato e diretto dalla dinamica probatoria dibattimentale. E’ vero che, in parte, questo principio è destinato a rimanere espressione di una linea tendenziale e non sempre le contingenze consentono il suo integrale rispetto. Pur con tale consapevolezza, non è però possibile legittimare una sistematica, consapevole e piena violazione di tale valore fondante.

  Violazione del contraddittorio processuale, quale metodo di accertamento della verità giudiziaria. Per le stesse ragioni espresse al punto che precede, è necessario che l’imputato e per esso il suo difensore, non sia pregiudicato dalla preesistenza di un “esame televisivo del teste” e possa invece contare sulla corretta dinamica dell’esame e del controesame dibattimentale.

  Il catalogo di violazioni che precede lascia volutamente fuori la lesione del diritto alla riservatezza che, in non poche evenienze fra quelle narrate, risulta perpetrata in modo eccessivo e non proporzionato, in termini di bilanciamento, a quelli che sarebbero stati i fisiologici effetti di un processo giudiziario, libero dall’ingombrante sovrapposizione del processo mediatico.

  Eppure, sembra proprio che lo spettacolo debba andare avanti.

Enrico Leo. Tutti i diritti riservati